Lettera E 2 Stefania - Giuseppe

LABORATORIO DI SCRITTURA – LETTERA E2
Autrice: Stefania BAMBACE

ECCEZIONE, ESTRANEITÀ, ERRORE E molto altro.


Data: 18 Aprile 2024
Seduta al tavolo attendo. Un po‘ impaziente ma senza affanno, provo a tracciare su un foglio le linee protese in avanti di una E in maiuscolo e la osservo, con la certezza che sarà lei a svelarsi, a condurmi verso la parola giusta per avviare il mio testo. Sembra un pettine, un grande pettine perfettamente rettangolare con i denti affilati abbastanza da sciogliere o sgarbugliare anche il nodo più ostinato. Accanto scrivo malamente una minuscola e in corsivo: con quella sua testina piccina ed una codina sproporzionata ha l‘aspetto malconcio di uno spermatozoo che non ce l‘ha fatta, che ha fallito lo slancio creativo verso una nuova vita. Giro il foglio, mi alzo e mi dirigo allo specchio. 
Mi concentro sul movimento delle labbra mentre pronuncio con un suono prolungato eeeeeeeeeeeeeee….. ma la smorfia non mi piace e mi abbandono ad un AAAAAAAAA molto rotondo e forte. Che soddisfazione! Torno al tavolo, riguardo i miei scarabocchi e mentre tento di dare un senso alle mie azioni disarticolate sento cadere un‘illuminazione improvvisa. No, non é epifania o momento epifanico la parola scelta, anche se sarebbe appropriata all‘istante presente. 
Accartoccio il foglio ed escludo categoricamente il pensiero che inizialmente mi aveva sfiorata. 
L‘ESPERIENZA che, a forza di energici colpi di pettine scioglie nodi ingarbugliati o schiaccia e ricaccia indietro illusori slanci vitali. O ancora produce note stonate con labbra serrate dallo sforzo e dalla fatica e si abbandona a morbide, tondeggianti ed equilibrate sinfonie della vita di tutti i giorni. No, non voglio parlare dell‘esperienza. 
Quella nota distonica, però, emersa nell’atto di pronunciare ad alta voce la lettera e, mi suggerisce un‘altra importante parola con la e iniziale: ECCEZIONE.
Mi sono sempre piaciute le eccezioni. Tutte le essenze che abitano coraggiosamente gli spazi al di là dell‘ordinario, del consueto. Mi sembra che abbiano argomenti assai più convincenti dei soggetti rintanati nei territori conosciuti e confortevoli della norma. Persino in grammatica. 
Non esiste nulla di più codificato in una lingua, strumento di comunicazione tanto individuale quanto collettivo, della sua grammatica. 
Eppure la mia dedizione all‘universo misterioso delle lingue mi ha più volte confermato che sono proprio le eccezioni alle rigide regole grammaticali a svelare i segreti più affascinanti della forma mentis di un popolo, di cui la struttura della lingua non é altro che il manifesto, o il megafono. 
Lo studio della grammatica andrebbe approcciato come quello della filosofia. In fondo, entrambe interpretano e definiscono il pensiero e  l‘animo umano. Digressione a parte, nel mondo e nella storia la mia simpatia é tutta per le eccezioni. Ancor più, é ovvio, nelle arti e nelle lettere. 
Per le figure che hanno osato e dunque stravolto il corso delle cose, non per distruggere ma per costruire meglio. Mi piacciono le figure scomode, non gli anticonformisti in nome di un anticonformismo alla moda. 
Diffido delle mode. 
Forse il mio entusiasmo é iniziato con la lettura delle fiabe, dove era necessario che qualcuno rompesse lo schema istituzionalizzato ed esplorasse territori non convenzionali per ricomporre alla fine la realtà secondo un ordine nuovo. 
Provo a fare ritorno a quel tempo infantile, al momento in cui si é manifestata irrevocabile la mia predilezione per le eccezioni, per i “fuori norma “.  
Quanto avrei voluto che quello slancio fosse anche mio! Ma il mondo reale ha dimenticato le fiabe ed i suoi eroi “erranti “, ed è oggi popolato da figure di comando grigie che temono le eccezioni e piegano ed appiattiscono le menti ad un ordine che esclude non solo il pensiero critico ma che tende proprio ad annullare il pensiero.
A me continuano a piacere le eccezioni. Mi riconosco. 
Mi sento apparentata, ma come un‘eccezione senza eccezionalità. Quindi nessuna vanagloria, tantomeno una ridicola autocelebrazione, piuttosto l‘ammissione di un antico disagio nel non sentirmi quasi mai conforme. Una percezione di separatezza o di estraneità, parola che in fondo è sorella
minore di eccezione. Nel buio mi domando se ho vissuto cercando o scappando. Con questo costante fastidio nell‘anima di non trovarmi mai nel posto giusto, almeno secondo le etichette sociali e le categorie di appartenenza in cui venivo ingabbiata e catalogata (e lì sei troppo, e lì troppo poco, e lì dovresti, e lì potresti, e non rompete!).
Il livello successivo supera i dati biografici, è lo spaesamento in un reale in cui fatico a specchiarmi. 
Il mio eterno vate Gaber declamava “Mi fa male il mondo “e poi, dopo averne enumerato i motivi, con la consueta autoironia aggiungeva “come sono delicato!!!!!!!“.
Eccomi, io sono lì dentro, in quei versi. Un tratto peculiare, come la forma del naso o il colore degli occhi. Non mi piace, però esiste. Mi domando comunque per quale motivo si
debba tendere ad una normalità socialmente accettata per non sentirsi fuori posto, esclusi.
Per non sentirsi in o addirittura un errore. Come se fosse giusto solo ciò che è normale. E chi decide cosa é normale? L‘eccezione è ciò che mette in discussione la norma, cioè la
regola. Per questo é antipatica, ardua da comprendere, inaccettabile a chi è innamorato e prigioniero delle proprie convinzioni. Se è vero come è vero che ogni regola ha la sua
eccezione, significa che la regola non può essere un sistema perfetto, inossidabile. É un orientamento, un‘indicazione ma può essere resa migliore dall‘eccezione. Il mondo ha
bisogno di entrambe, noi abbiamo bisogno di entrambe. Scomodando Vincent Van Gogh, “la normalità é una strada lastricata: é comoda per camminare ma non vi cresce nessun
fiore “. Riprendo in mano il mio foglio accartocciato, lo stendo e riguardo la mia grossa E.
Ripenso alla mia voce stonata nel pronunciare in modo prolungato la vocale e. Voleva essere il corrispettivo sonoro dell‘adrenalina che precede il segnale di partenza, il “pronti,
partenza, via “che doveva dare lo slancio ad un racconto. Non mi é riuscito. Si è inceppato lo sparo alla griglia di partenza. ECCEZIONE, dal latino exceptio-onis, derivato di
excipere, ECCEPIRE, a sua volta “tirar fuori “. Mi sono permessa di interpretare liberamente, evidentemente avevo bisogno di una legittimazione per tirare fuori. 
Tirare fuori da me tutto il groviglio di pensieri che in me evoca la parola eccezione con tutte le sue sorelle. Me ne scuso. Non ho creato un racconto, ho fatto un‘eccezione.


Autore: Giuseppe BAMBACE

ESTATE


Finalmente giunge l’estate, la natura mette in scena le sue manifestazioni più rigogliose, dai colori a tinte più accese ai sapori più succulenti, dagli aromi più inebrianti ai suoni più armoniosi.
Gli animali inaugurano la stagione degli accoppiamenti, per assicurarsi una nuova generazione prima del ritorno del gelo invernale in un concerto melodioso di cinguettii fischi bramiti ululati ronzii.
L’anticiclone delle Azzorre insiste sull’area del Mediterraneo, regalando tempo stabile e soleggiato, come spiegava il colonnello Bernacca.
L’essere umano civilizzato sale sul palco di questa rappresentazione armoniosa, impadronendosi con la consueta arroganza del ruolo da protagonista. 
Dopo l’invenzione delle vacanze generato dal boom economico degli anni ’60, una moltitudine disordinata e chiassosa si riversa nelle località di villeggiatura, contendendosi un metro quadro di spiaggia od un fazzoletto di prato, traslando inconsapevolmente le frustrazioni le nevrosi i quesiti insoluti dalla scrivania o dalla catena di montaggio all’ombrellone o ad una vallata alpina.
Intanto la sottospecie turista culturale pascola distrattamente nelle città d’arte, mettendo a dura prova la pazienza del David e del Gobbo di Rialto che osservano con sguardo perplesso questa transumanza consumare rituali primordiali armati della lancia porta smart phone.
Ma con il suo fulgore, l’estate riesce ad ispirare nell’uomo pulsioni vivide, oltrepassando il senso comune, scavalcando le convenzioni.
Celebra gli amori improvvisati, impossibili, effimeri quanto il frinire delle cicale e la data stampata sul biglietto di ritorno. Li interpreta con melodie da juke box, su una rotonda sul mare, col sapore di sale sulla pelle, perché luglio non finirà. Ispira promesse, speranze ammaliate dal cielo di stelle cadenti, stimola l’abbandono al piacere edonistico dell’ozio, lasciando in eredità all’autunno i ripensamenti sugli anni e sull’età per citare Guccini.
Per ultimo aggiungo con voce sommessa che estate è la stagione in cui sono nato io, in un sabato afoso di agosto tra le spighe di riso cariche del loro prezioso chicco, l’assalto di zanzare fameliche ed il gracidare delle rane in amore.
Fino al raggiungimento della maggiore età, per me Estate non ha rappresentato solo una stagione, era LA STAGIONE per antonomasia, legata indissolubilmente alle vacanze trascorse a casa di nonna Maria.
Sfogliando le immagini racchiuse nell’anima, mi rendo conto che il tempo ha addolcito le emozioni gioiose, confinando ai margini i ricordi più spigolosi, avvolgendoli nel bozzolo dell’oblio. Le scorro in rapida successione.
Il treno notte che avanza a scossoni, sferragliando, ondeggiando affrontando un’odissea di 16 ore più ritardo di entità variabile. La contesa coi miei fratelli per aggiudicarsi la cuccetta superiore, le prime luci dell’alba addolcite dalle sfogliatelle e dal caffè servito dai thermos alla fermata Napoli, Superata Scilla, l’emozione dell’uscita dall’ultima galleria dell’Altafiumara, che rivela lo splendore naturale dello stretto.
Il comitato di accoglienza davanti a casa, gli abbracci amorosi che sanciscono l’ingresso in un’altra dimensione, da vivere intensamente per quasi tre mesi, gustando nel profondo il sapore inebriante di spensieratezza, che nemmeno l’odiato libro delle vacanze dal titolo capzioso Roselline avrebbe mai potuto scalfire.
Il filone caldo del forno, condito coi pomodori dal gusto intenso di sole, olio che sfrigola sulla lingua e origano profumato. La granita la cui scelta era limitata a limone, caffè e fragola ma con panna sopra e sotto.
Poi il mare con le sue tonalità di verde, blu e indaco, simbolo di spiritualità e di risveglio interiore. Complice delle marachelle quotidiane o del primo bagno notturno vissuto come un’impresa pioneristica, amico sincero delle nuotate solitarie al tramonto e dei tuffi incoscienti dal grande scoglio della costa viola.
La tavola imbandita intorno alla quale si stringevano allegre tre generazioni, sotto lo sguardo saggio e carismatico di nonna dal suo posto di capo tavola. Almeno fino a quando noi ragazzini scatenavamo la guerra dei semi di anguria, per la disperazione rassegnata degli adulti.
Un’aura buona che infondeva senso di protezione di sicurezza, una solida certezza di bambino che tutto sarebbe rimasto immutato. Ma il tempo inflessibile ha battuto i suoi rintocchi, ed il cielo ha rivendicato quelle anime luminose.
Il senso di Estate vissuto fino ad allora ha perso definizione, l’ingresso nella stagione del lavoro ha fatto il resto. Al richiamo del paesello ha prevalso la curiosità intellettuale di estendere i confini oltre le terre conosciute verso oriente, regalandomi nuovi orizzonti, abitazioni lontane, culture antiche, pensieri filosofici che hanno arricchito lo spirito, ampliato le prospettive della mente.
Rientrato nel frullatore della quotidianità di ufficio, incombenze domestiche, bollette e scadenze di pagamento, l’estate sembrava svilita alla mera pianificazione delle ferie, piegata all’ossessione delle vacanze intelligenti. Fino a quando una giovane vita è entrata prepotentemente a far parte di me. 
E d’un tratto la sua estate è diventata la mia estate, perché ne vale la pena.
Non riesco ad immaginare l’estate del futuro, neanche quello recente. C’è del disagio, oppure semplicemente il desiderio di allontanarsi dal chiasso e dagli eccessi. Una sensazione tradotta sommamente dai versi di Battiato nel suo grido accorato al mare, che lo aiuti a lenire il travaglio della sua anima, trasportandolo verso mete lontane in una dimensione inesplorata ed eterea.

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