Lettera T 2: Stefania - Giuseppe - Federico - Celo - Gabriella - Mia

 LABORATORIO DI SCRITTURA – LETTERA T2

Autrice: Stefania BAMBACE

TRAMONTO

Data: 25 Gennaio 2024


Eccola, ci siamo, é arrivata anche oggi. Da oltre 50 anni le giornate di agosto muoiono sempre alla stessa ora. Almeno in questo luogo. Le mie postazioni sono anche rimaste le stesse: la riva, la spiaggia, l‘angolo del terrazzino, il balcone in alto. A volte per assistere allo spettacolo mi sono spostata più su, sulla collina, dove i due piloni di ferro, i guardiani moderni che hanno scalzato via i mostri di Scilla e Cariddi, si guardano e a quest’ora danno il via al loro fraseggio d‘amore. Sono salita diverse volte in alto, per vedere il mare tutto intero ed anche al di là, oltre una strisciolina di costa, ed assaporare così un tramonto in ampiezza ma non é mai stato un appostamento quotidiano. 

É in un perimetro ben definito e in precisi punti di osservazione che i miei tramonti vengono a trovarmi, non sono io a recarmi da loro. Sanno sempre come parlarmi ed ogni sera aggiungono un particolare al loro racconto. Da bambina avevo solo gli occhi per fermare il momento, ma mi bastavano. I battiti delle ciglia nella sfida contro la luce intensa seguivano all‘unisono i battiti del cuore, mentre il grande disco pian piano scompariva dietro la montagna, lasciando dietro sé i segni cromatici del suo passaggio che imbrattavano il cielo, le nubi e soprattutto il mare, in una scia ampia e lunga circa tre chilometri, ad unire in un abbraccio le due sponde. Salutando con la manina, davo al sole il mio arrivederci pieno di fiducia. Crescendo, lo sguardo si é affidato alle competenze di una Yashica e dei suoi rullini per restituire immagini di una bellezza che a sua volta chiamava una struggente malinconia. 

Poi é toccato alla prima videocamera riprendere i passi di quel singolare cammino, oggi é il cellulare a contenere tutto: gli istanti, i micro movimenti del sole e le conseguenti diverse sfumature di luce, i fermo immagine, gli effetti panorama, i dettagli presi da vicino, ed ancora quel ritmo all‘unisono di battiti di ciglia e palpiti del cuore mentre l‘anima si lascia dolcemente naufragare in quel mare che “sempre caro mi fu“.

Rammento una celebre frase di Pessoa, reperibile ovunque in Internet e ridotta, ahimè, alla potenza evocativa di un messaggino da Baci Perugina: ‘Tutto é imperfetto. Non c‘é tramonto così bello da non poterlo essere di più“. Osservazione particolarmente vera quaggiù. In oltre 50 anni non un tramonto del cielo di agosto é mai stato uguale ad un altro.

Complice una nuvola in più o in meno, l‘inclinazione o l‘ampiezza di un raggio, i giochi delle correnti che creano un dipinto sempre nuovo sulla superficie del mare, la luce che rimanda colori diversi di minuto in minuto, la barca di un pescatore proprio al centro del riflesso del sole, un branco di delfini che sembra giocare con una palla colorata buttata in mare dal cielo sovrastante.

Ogni sera uno spettacolo improvvisato. Un tramonto in movimento. Molto altro é cambiato, tutto attorno. Le case, la gente, i rumori, i silenzi assordanti di chi non c‘é più, il fastidio di troppo altro che invece c‘é in abbondanza.

Dentro il tramonto, però, l‘eccesso si svuota ed io sono dentro quell‘ora che nulla ha a che fare con il tempo. É una dimensione parallela, in cui parlano lo stupore, la commozione, l‘estasi, la gioia, la nostalgia. Passato, presente e futuro sono liquidi, mescolati in punta di pennello e restituiti in forma di colore. Un amico di Giuseppe, molti anni fa, un ragazzo di origini etiopi venuto in visita, disse che quei tramonti gli ricordavano tanto i suoi dell‘Africa. Una frase che mi é rimasta scolpita dentro. Un moto simile é ciò che mi trasporta all‘ammirazione di ogni tramonto, in qualsiasi luogo, contesto o stagione.

Non é la ricerca ansiosa di un parallelismo ma un legame che, come una faglia sotterranea, mette in comunicazione le reazioni emotive da un luogo ben noto a tutti gli altri luoghi occasionali. Amo gli incendi dietro le montagne, fra gli alberi di un parco, la sfera rossa che si tuffa nell‘oceano.

Tornano alla mente i tramonti dei luoghi più esotici che ho avuto la fortuna di visitare, insieme ad altri più ordinari, immersi in una Natura più familiare. Tramonti che lanciavano riflessi abbaglianti ed infuocati sulle rocce, le scogliere, il deserto o le palme oppure quieti mari del Nord tinti di colori pastello.

Cieli improvvisamente rosati tra i tetti delle case del mio amato quartiere. E sempre quell‘urgenza di documentare il respiro della luce, farne scorta per l‘aria pesante del banale consueto.

Eppure ogni volta non posso fare a meno di pensare che sto celebrando l‘incanto di qualcosa che finisce. La mia irruenza giovanile, mai veramente sopita, che reclama e celebra la bellezza di esistere si scontra da sempre con il fascino di questi trapassi di luce, che aprono alla notte, al buio, all‘ignoto ma anche alla stanchezza che incede.

Con gli anni la mia attenzione privilegia, al quadro d‘insieme, il dettaglio talvolta a me sola visibile delle linee e dei contorni che il sole ormai sparito ha disegnato nel cielo. Così come i bambini cercano di indovinare le forme delle nuvole, io mi ritrovo a lasciare irrompere il pensiero nel mio caleidoscopio di emozioni e, tra una quieta sfumatura impressionista ed un graffio surrealista, indugio nell‘interpretare un messaggio.

Vorrei leggere il mistero scritto dietro al colore che il sole sembra aver lasciato lì apposta. Si acquetano intanto le nuvole della mia esistenza, chi può temere un acquerello? Tra le loro pieghe voglio scoprire cosa va a terminare insieme con il giorno. La nota finale di una canzone, l‘ultimo cucchiaino di un dolce alla crema, la sera che chiude le vacanze estive, la parola che conclude un romanzo, un bacio di buonanotte o di addio. 

C‘é forse qualcuno, un messaggero nascosto tra il viola, l‘arancio ed il rosa? Vorrei sapere, vorrei capire...Infine mi arrendo ad un pensiero semplice. Penso che é bello tramontare nel colore, lontano dal grigio, e poi trapassare nella luce, nel riflesso dell‘acqua, nella pace.


TIMASHEVSK

Autore: Giuseppe BAMBACE

Attraversai la cortina di ferro per la prima volta nell’ottobre 1989, destinazione il paese di Timashevsk nella regione di Krasnodar, ultimo avamposto meridionale URSS, prima di affrontare le alture del Caucaso ed il confine tumultuoso con la Georgia.

Il visto d’ingresso aveva le dimensioni di un’agendina tascabile, corredato di fotografia di riconoscimento rigorosamente in bianco nero. La porta d’ingresso era inevitabilmente l’aeroporto Sheremetjevo-2 di Mosca, avvolto in un’atmosfera di penombra quasi lugubre, dove militari dallo sguardo impenetrabile addetti al controllo passaporti e visti costringevano i passeggeri ad attese estenuanti, che potevano protrarsi per ore.

Una volta uscito dall’aeroporto, il primo impatto fu la visione di una moltitudine caotica di taxi e autobus che emanavano un odore acre di fumi di scarico, che si respirava anche all’interno dell’abitacolo.

L’hotel prenotato era della catena statale Intourist, riservato esclusivamente agli stranieri. In attesa della coincidenza aerea del mattino successivo, la notte gelida di Mosca mi regalò l’incanto della visita alla Piazza Rossa, che per l’occasione aveva indossato il più sfavillante dei suoi abiti invernali. Immerso nell’estasi di fronte a tanta bellezza, non avrei mai presagito che di lì a poco sarei stato testimone di eventi di portata storica, che avrebbero cambiato per sempre il corso di quel Paese e le relazioni con l’Europa.

Ignara del suo destino, la bandiera rossa con falce e martello garriva sul pennone più alto del Cremlino ed io mi accingevo ad un tour esplorativo del cantiere dove mi sarei trasferito l’anno seguente fino a fine lavori previsti nell’estate 1991.

I voli diretti a sud partivano dall’aeroporto Vnukovo, raggiungibile in 40 minuti circa dal centro, attraversando begli scorci sulla via Arbat, le cupole dorate del monastero di Novodevicji ed il corso lento della Moscova intrappolata nel ghiaccio. In aeroporto gli stranieri venivano raccolti in una sala d’attesa riservata, arredata in modo spartano. Una volta raggiunta la pista a piedi, salivano la scaletta di accesso per primi, tra due file di persone infreddolite, dallo sguardo carico di risentimento.

Il Tupolev ANT-35 era l’aeromobile in servizio sulla rotta per Krasnodar. Nonostante la sua grande capacità di carico in stiva, venivano stipati in cabina grossi pneumatici di mezzi agricoli, gabbie con vivaci animali da cortile, sacchi di patate, casse di legno, accatastate negli spazi riservati alle uscite di sicurezza.

Due ore e mezzo di volo vissute con sottile inquietudine per raggiungere la sconfinata pianura di terra grassa, bagnata dal fiume Kubanj, sede prescelta dal governo centrale per la costruzione di uno stabilimento di 45 mila m2, per la produzione di imballaggi per alimenti e incarti latte UHT.

La ditta jugoslava incaricata dei lavori edili aveva già colonizzato il paese con migliaia di tecnici ed operai, costruito un’estensione del paese di proporzioni confrontabili con la Timashevsk esistente, oltre a villette per i futuri dirigenti della fabbrica ed un albergo dal nome evocativo Druzhba (amicizia), che era presto diventato luogo d’incontro dei fine settimana, dove si celebravano banchetti accompagnati da musica dal vivo, ma che dopo abbondante consumo di vodka si trasformava in luogo di scontro tra i locali ed i numerosi georgiani che pernottavano lì, sulla rotta dei loro traffici commerciali in territorio russo.

Al mio ritorno a Timashevsk nell’autunno del 1990, per assumere la direzione del cantiere nella fase di messa in servizio degli impianti, il contesto sociale e politico internazionale era già notevolmente mutato rispetto alla prima visita esplorativa Oltre al muro di Berlino ed all’assalto dei berlinesi all’archivio della STASI, erano caduti molti altri tabù nell’universo dei regimi socialisti europei.

Il capo di stato e segretario del PCUS Michail Gorbacev cercava di riformare l’Unione secondo i principi di glasnost e perestroika, contro l’apparato burocratico corrotto e inefficiente, ostile ai cambiamenti del sistema.

Mentre a Mosca si teorizzava, la nostra realtà quotidiana vedeva gli scaffali dei pochi grandi magazzini ed esercizi commerciali desolatamente vuoti, tanto che con la loro proverbiale ironia i russi solevano dire che non soffrivano di penuria di soldi, perché non c’era nulla da acquistare.

Di conseguenza a inizio 1991 i 14 bagagli imbarcati per il cantiere dalla nostra squadra di 12 tecnici contenevano stoviglie, attrezzature da cucina e set di lenzuola e asciugamani, grucce per abiti, lampadine carta igienica e quant’altro servisse per i bisogni quotidiani.

I mesi che seguirono trascorsero in un’apparente calma sociale, anche se i generi di prima necessità erano razionati con la distribuzione di coupon su cui erano indicati i quantitativi mensili assegnati. Fioriva il mercato nero, a cui anche noi eravamo costretti a rivolgerci, per integrare dalla porta dei retrobottega la dieta imposta dai coupon e fare il pieno di benzina in stazioni di servizio periferiche.

Non mancavano episodi degni di una rappresentazione kafkiana. Ricordo donne che alle prime luci dell’alba raggiungevano in fila l’unico emporio del paese, perché si era sparsa voce della remota possibilità che in giornata sarebbe arrivato un carico di merci di genere non definito. Oppure la ricerca spasmodica di bottiglie di vetro, da utilizzare come vuoto a rendere per acquistare la bottiglia di latte o di acqua minerale, o ancora i furti sistematici dei tergicristalli delle regata weekend in dotazione al cantiere e persino delle buste di plastica stese sui fili ad asciugare, introvabili sul mercato locale.

Le riforme proposte da Gorbacev non riuscivano a scardinare l'opposizione dei poteri forti, facendo precipitare il paese in una disastrosa crisi economica.

L’inflazione era fuori controllo, nella visita a Krasnodar del fine settimana occorreva una borsa colma di banconote per acquistare i generi alimentari al mercato e per pagare 10 minuti di telefonata verso l’italia all’hotel Intourist, unica possibilità di comunicazione con casa.

Peraltro, privilegiati dal cambio sempre più favorevole, nella via degli artisti abbiamo potuto acquistare a prezzi molto convenienti prodotti di artigianato locale e quadretti di pittori di strada, che ancora oggi fanno bella mostra nella vetrinetta del salotto o affollano ogni parete disponibile della casa.

Malgrado il lavoro fosse molto impegnativo, abbiamo anche vissuto alcuni momenti di spensieratezza, durante due gite organizzate in occasione di festività nazionali, sempre sotto l’egida dell’intourist locale.

La prima lungo la spiaggia sabbiosa di Anapa sul mare d’Azov, da cui siamo tornati con la pancia piena di ciliegie succose acquistate da alcune nonnine che avevano improvvisato i loro banchetti sul ciglio della strada ed un colorito aragosta fosforescente per un’improvvida esposizione al riverbero del sole sulla superfice del mare, dopo mesi trascorsi nella monotonia della pianura che si perdeva all’orizzonte dei 4 punti cardinali.

La seconda in una Sochi ancora incontaminata dal turismo di massa, che per il clima mite del Mar Nero era la località ideale per aprire i sanatori, alberghi riservati ai lavoratori di ciascun settore industriale, che potevano godere di alcune settimane di riposo. Noi alloggiati nell’immancabile hotel Intourist nel mese di marzo abbiamo sperimentato il bagno di acqua termale fumante nella piscina all’aperto, mentre il prato intorno alla piscina era ricoperto di un manto di neve fresca.

Proseguendo il viaggio nelle località più rinomate sulle prime pendici del Caucaso ricordo il commiato da Piatigorsk con una forte scossa di terremoto di prima mattina, che ci ha fatto ritrovare nella sala colazioni ancora in pigiama con addosso solo passaporto e tanto spavento.

Nulla in confronto allo scossone avvenuto a Mosca in quegli stessi giorni, quando otto repubbliche approvarono il nuovo Trattato dell’Urss quale unione di stati sovrani con presidente, politica estera e militare in comune.

A fine luglio 1991 terminammo le prove di accettazione degli impianti e macchinari. Nel frattempo la storia galoppava con lo scioglimento del Patto di Varsavia. Mentre insieme al capo cantiere stavamo organizzando la chiusura del cantiere ed il rientro in Italia, insieme al trasferimento di arredamenti, autovetture e altri beni aziendali nel cantiere successivo in Siberia, Gorbaciov partecipava al G7 a Londra per chiedere un sostegno al suo piano di riforme. Gli unici capi politici a favore furono il cancelliere tedesco Kohl ed il primo ministro italiano Andreotti. La maggioranza si espresse contro la concessione dei sostanziosi crediti, da lui richiesti per affrontare la crisi economica e mantenere il controllo della situazione politica interna, sancendo di fatto la sua fine politica.

Due settimane dopo, mentre trascorrevo le vacanze estive nella casa di nonna in Calabria, il TG passò la notizia del golpe a Mosca, che per noi, parafrasando Gabriel Garcia Marquez, era cronaca di una morte annunciata. Il resto è storia nota, Eltsin in piedi sul carro armato, il fallimento del golpe, l’inevitabile fine della carriera politica di Gorbacev, rientrato a Mosca dalla Crimea come un naufrago, l’effetto domino che in pochi giorni di agosto 1991 avrebbe provocato la dissoluzione dell'Urss con la proclamazione dell’indipendenza di molte repubbliche e lo sgretolamento del sistema socialista in Europa, dalla Jugoslavia alla Polonia.

Il progetto di convivenza del socialismo col libero mercato venne sepolto entro l’anno, con le dimissioni formali di Gorbacev e l’ultima riunione del Soviet Supremo che ratificò lo scioglimento dell'Urss, concluso con l’atto di grande valenza simbolica della sostituzione della bandiera sul Cremlino con quella bianco-rosso-blu della Federazione russa, rispolverata dal tempo degli zar.

A distanza di così tanti anni, riflettendo sulla drammatica situazione attuale nella regione, mi sorge spontaneo chiedermi come sarebbe cambiata la storia se l’Europa avesse fornito adeguato sostegno ai tentativi di riforma di Gorbachev, creando un’alleanza strategica con un Paese a noi simile per cultura e storia, allargando i confini dell’Europa rendendola finalmente protagonista, sia dal punto di vista del peso politico che come potenza economica.

Avrebbe forse garantito maggiore stabilità politica ed evitato l’ascesa al potere del dittatore KGB, ma ancora una volta la UE si è ripiegata come suddito remissivo agli interessi del nostro maggiore alleato oltre oceano.

Un’occasione mancata, che probabilmente oggi non ci costringerebbe ad osservare impotenti a scenari di sterminio di civili innocenti ed a dibattere dell’aumento di bollette energetiche e del rischio latente di una nuova recessione economica.

Ma non esiste la controprova, come recita un proverbio russo ripetuto con amarezza dai miei amici di allora “Non esiste soluzione più definitiva di quella provvisoria”.


Ti e el to raid

Autore: Federico


Una sera mi trovavo in una sala prove musicali, insieme ad alcuni amici che suonavano cover delle canzoni dei Beatles. Il batterista è mancino, per cui prima di iniziare a suonare deve modificare la disposizione dei pezzi dello strumento sulla pedana. 

Senza accorgersene, appoggia il supporto del piatto da accompagnamento, che in gergo musicale si chiama “Ride”, troppo vicino al bordo della pedana. Iniziano le prove, quando ad un certo punto inizia a picchiare sul ride, il quale cade fragorosamente a terra dopo essersi spostato di pochi centimetri. 

Mentre affannosamente egli raccoglie il piatto col relativo treppiede e cerca di risistemare il tutto, mi viene spontaneo esclamare “Ti colto raid!”. 

Ovviamente parte una risata generale e mentre i musicisti riprendono a suonare, nella mia mente si delinea il testo in piemontese di Ticket to ride, che allego qui sotto, possibilmente da leggere ascoltando la canzone originale.


Soma andait a sonè

ma el post a l'è sciass

aj stan nen i tambur

figurese ij piat!

Ti con tut el to ride

ti con tut el to ride

ti con tut el to ride

et ven-i reid!

Ancaminoma a sonè

ma at ven nen a taj, neh

at parto via i toc

e a casca d'co l'raid

Ti con tut el to ride

ti con tut el to ride

ti con tut el to ride

te staghi nen!

Mi sai pa perchè l'an butame da fianc

stasia bin mej

stasia bin mej an mes?

e come veuli ca posa sonè

con tut an bras

con tut an bras contra el mur?

Steve sempre ad nans

tuti vardo mac voi tre

si darera am faso l';tombin

an mes al rabel

Mi con tut el me ride


mi con tut el me ride

mi con tut el me ride

mi stago pa bin

Ventaria che el palch a fujsa pi largh

a jè gnanca el post

el post per nostri strument

Adess e dismontoma la baraca

e tornoma mai pi

a sonè an';t un post parej

L';oma finì ad sonè

mi son bele che andait, neh

sta vira l';è andà

ma as peul nen sempre parej

Mi con tut el me ride

mi con tut el me ride

mi con tut el me ride

son beli sciop.

As fa nei parej, as fa nen parej.

As fa nei parej, as fa nen parej.

As fa nei parej, as fa nen parej


Tatuaggi

Autore: Celo


Questa estate mi  sono interrogata sul perché una persona si faccia fare un tatuaggio, sulle ragioni che la conducono ad avere una decorazione destinata a durare per sempre, anche se modificabile, ma soprattutto come si possa pensare di non cambiare i propri gusti e i propri concetti di riferimento nel tempo.


Ho iniziato a ragionarci su e a trovare oltre alle ragioni estetiche, ragioni di richiamo sessuale, l’esigenza di comunicare qualcosa o di dichiarare la propria appartenenza a un gruppo.

Ho trovato tatuaggi di tipo old style, americano, giapponese, tribale , e una varietà sterminata di simboli, come i simboli celtici : spirale, croce, triskele, nodo della trinità, albero della vita, il nodo di Dara simbolo della quercia che simboleggiano rispettivamente la crescita personale, la fede cristiana, la forza, la santissima Trinità, il legame con la natura, la qualità infinita della vita.


Ho scoperto che i tatuaggi simboleggiano la forza e la resilienza, sono come dei talismani, dei promemoria della propria forza interiore, evidenziano e rafforzano il coraggio, la spinta a raggiungere il pieno potenziale di quello che si desidera e si persegue.


Mi sono interessata forse anche perché una persona a me cara  alla domanda di cosa volesse in regalo, ha risposto un tatuaggio: un punto e virgola, un semi colon, che ho scoperto essere il  simbolo del  Project Semicolon un’ organizzazione no-profit che ha l’obiettivo di prevenire il suicidio e dare speranza a chi lotta contro la depressione reattiva ( di reazione a un evento), l’autolesionismo, le dipendenze; chi si tatua un punto e virgola dimostra solidarietà nei confronti delle persone che combattono contro patologie psichiatriche o verso chi ha perso una persona cara a causa del suicidio e io gliel’ho regalato per il suo compleanno con leggerezza e solo ora ne ho capito il significato.


Ora sono più indulgente nei confronti di chi si tatua e quando posso chiedo di mostrarmeli e di spiegarmeli.


A questo punto mi sono chiesta ma io, io che cosa mi tatuerei? 

Ho preso una via diversa, ho pensato con nostalgia e tristezza ai nomi dei luoghi che non frequento più, ai nomi dei miei cani, dei miei gatti che non ci sono più, ai nomi dei miei nonni ... poi ho pensato al mio nome nel caso me lo dimenticassi , e mi sono accorta che non sono ancora pronta per un tatuaggio o forse no, dipende se mi ricordo il mio nome!

E voi che cosa vi tatuereste ?




TUTTI SUL TRENO

Autrice : Gabriella


Fin da bambina il treno suscitava per me un non so che di fascino e nello stesso tempo di emozione. 
Andare in stazione per prendere il treno era sinonimo di vacanza al mare, in Liguria. La partenza era un allontanarsi dalla nostra routine quotidiana per un altro luogo sconosciuto. 
Sempre da bambina, trascorrevo la domenica con i miei genitori andando a passeggiare in centro città o al Valentino; a volte entravamo nella stazione di Porta Nuova. 
Ricordo una foto in cui titubante, salivo i primi scalini di una vettura di un treno fermo. 
Temevo che partisse a breve, ed io? Ma con la rassicurazione dei miei genitori mi sono tranquillizzata, così in quella foto ho anche sorriso.
Gli anni passano finché ho sposato un ferroviere. Ma già prima di sposarci avevamo l' hobby di correre dietro ai treni a vapore per fotografarli. Eh si, il divertimento non era quello di fotografare il treno alla stazione di partenza o quella di arrivo. Troppo facile, meglio qualcosa di più “attivo” e stancante. Quindi lasciavamo gli altri agli scatti in stazione e noi in auto si andava a cercare durante il percorso, vari punti favorevoli per immortalarlo. Era una bella attività motoria!
Non ho mai considerato il mestiere di macchinista fino a che, per andare al carnevale di Chivasso, sono salita in cabina di guida. Qui ho capito il senso di libertà che si prova. La postazione di guida con una visuale il più possibile ampia per una buona visibilità. Ho avuto la sensazione che il treno slittasse sui binari e non riuscisse a fermarsi. 
Come si fa a fermare un treno?
Mi avevano spiegato che occorre frenare chilometri prima e rallentare. Devo ammettere che è un lavoro molto attraente seppure carico di responsabilità. Ecco perché un macchinista ama il suo lavoro, per questo senso di libertà.

Non conoscevo la Svizzera, mai avuto l'occasione di andarla a scoprire. Ma ora posso dire che la conosco grazie ai treni.
Mentre l'Italia ha smantellato i tratti di ferrovia meno utilizzati ma anche più panoramici, gli svizzeri ne hanno fatto tesoro. Hanno conservato un gran numero di treni storici e modernizzato ferrovie e treni che si arrampicano sul difficile territorio elvetico. Hanno mantenuto collegamenti verso le località montane altrimenti difficili da raggiungere facendone una importante attrazione turistica. 
Arrivano turisti da tutto il mondo per viaggiare sui caratteristici trenini che si inerpicano verso Saint Moritz, Zermatt, Interlaken, il lago di Ginevra e altre rinomate località. Famose in tutto il mondo la ferrovia più alta d' Europa sullo Jungfrau e la più ripida in assoluto che si arrampica sul monte Pilatus.
Per terminare, sui può paragonare la vita ad un viaggio in treno. Alla nascita saliamo sul treno della vita dove incontriamo i nostri genitori. Crediamo che viaggino sempre al nostro fianco, ma ad una stazione loro scenderanno lasciandoci continuare il viaggio. Molte altre persone saliranno sul nostro treno tenendoci compagnia. 
E il viaggio continua, pieno di sfide, sogni, fantasie, gioie, dolori, attese e addii. Il grande mistero per tutti è che non sapremo mai in quale stazione dovremo scendere. 
Dopo tutto questo divagare sui treni, appare il capotreno: “Tutti in carrozza, si parte!”. Si ode il fischio e il nostro viaggio continua.


Telefono

Autrice: Mia

Parliamo del Telefono. 
Voi già sapete che io spesso parlo della dittatura argentina
dal 1976 al 1982 con la guerra del las Malvinas, o le Falklands come si direbbe in inglese. 
Io continuavo a lavorare in balconi, terrazze e giardini, perché la vita continua, anche in tempi di dittatura militare. Mio marito era morto alcuni anni prima; mia figlia, per fortuna, già aveva traversato l’oceano; mio figlio era studente universitario; io avevo buone amicizie, una sorella e anche un amico con cui scambiare qualche momento più intimo. 
Le comunicazioni internazionali erano infinitamente diverse da oggi, per qualunque parte del pianeta. E anche molto, ma molto, più care per una giovane ragazza che doveva mantenersi da sola in un paese straniero. 
I telefoni pubblici guasti erano il sogno di tutti gli esiliati. Si, dico bene, guasti, da cui si poteva parlare senza che l’automatico ti mangiasse la moneta. E gli esiliati si aiutavano gli uni agli altri; chi scopriva un telefono “pinchado” lo comunicava all’amico e così via, e si formavano code attorno al benedetto telefono, fino al momento del fuggi fuggi quando arrivava la polizia. 
Il buonissimo film di Fernando Pino Solanas “ EL EXILIO DE GARDEL “ illustra questa scena in una Parigi del 1980, con musica di Piazzolla. 
Ma torniamo a casa mia, a Buenos Aires nell’epoca della Dittatura dove vivo e lavoro. Ho un appuntamento con il dentista e sono in ritardo. Sono già sulla porta e suona il telefono. Rispondo. E’ la voce di Monica. “ O Mo, sto proprio uscendo per andare al dentista, quello che tu conosci sempre tanto occupato, ma non posso lasciarlo aspettare. 
E dell’altra parte del mondo: - “ No, no, non chiudere: Ho trovato questo telefono da cui posso parlare gratis! - E anch’io già sto piangendo. - Dimmi come stai, dove sei, cosa fai, cosa studi - e così passano cinque minuti, o dieci, o forse venti. Dopo un poco penso che ancora posso forse trovare il sedile del dentista e lo dico a Monica, ma “No! Non andare, la linea é ancora aperta e non c’è gente che voglia parlare.” 
Spiegai al dentista la ragione della mia mancanza, e il dentista
amico la capì.


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