Lettera G Federico - Mia - Stefania - Giuseppe - Celo - Gabriella

   Guglielmo

Autore: Federico
Guglielmo gestiva nel paese di Arco, vicino al lago di Garda, una piccola locanda che aveva chiamato “Guglielm'Hotel”.
Era un posto strano: alle pareti non c'erano attaccapanni, ma gli ospiti potevano appendere gli abiti a delle frecce conficcate nei muri. Gugliemo offriva sempre ad ogni pasto delle mele. Forse anche per questo motivo, la sua locanda era spesso frequentata da mogli insoddisfatte di medici.

  Giovane

Autrice: Mia
Ero una Giovane vedova di 42 anni con due figli adolescenti. Mai finivo di essere madre, mai uscivo dal mio lavoro. 
Le ore di notte erano il miglior momento per lavorare tranquilla su quel mio tavolo da disegno cosparso di carte, di penne e pennarelli, di regole e di appunti. 
A volte c’era un disco dietro di me quasi in sordina con la adorata musica dei Beatles.
Nella notte tracciavo linee di prospettiva o progettavo un bagno o una cucina e, incredibilmente, c’era un amico sconosciuto d’altra parte della strada.
Vedevo una luce, un altro tavolo da disegno, e qualcuno che lavorava forse fino alle tre del mattino. In qualche modo c’era una intesa fra le due finestre e fra i due tavoli.
Ma un giorno, uscendo dalla mia casa, mi sono sentita salutare con un sonoro “Como le va?” e qualcuno che cercava di stringermi la mano. E ho riconosciuto il disegnatore, probabilmente architetto, padrone dell’appartamento all’altra parte della strada. 
Da quel giorno - o da quella notte - ci siamo salutati ognuno dal proprio tavolo o dal balcone.
Non ci siamo più trovati per la strada, io non ho saputo il suo nome ne lui ha saputo il mio.
Io ho continuato come sempre il mio lavoro di progettista e di madre. Nella giornata avevo, a volte, da vedere clienti, trattare con operai e sempre, occuparmi della casa, del pranzo e della cena o della educazione dei miei figli. 
Ho avuto clienti difficili e clienti con cui siamo diventati amici.
Con gli operai mi sono sempre trovata bene e ne ricordo alcuni con affetto.


LABORATORIO DI SCRITTURA – LETTERA G
Autrice: Stefania BAMBACE

LA MIA GERMANIA PRIVATA

Data: 11 Gennaio 2024
Nel profondo di ciascuno di noi sibila il vento di un richiamo, il richiamo di una metaforica foresta tutta personale. Verso un altro luogo geografico, una nuova dimensione esistenziale, una missione, poco importa come denominarlo, essenziale sarebbe il riconoscerlo. Tuttavia, ciò spesso non avviene. A volte lo si intuisce, più spesso lo si ignora o rimuove, più frequentemente non lo si ascolta affatto. Eppure é proprio quel richiamo ad indirizzare scelte decisive per la nostra esistenza. Può essere ingannevole? Io credo di sì, perché é una spinta istintiva, di purezza originaria che noi finiamo con l‘appesantire di ragionamenti ed elucubrazioni, paure ed alibi che inevitabilmente lo inquinano.
Per questo motivo non saprei dire con certezza se la Germania nella mia vita sia stata un richiamo.
Di sicuro una sorta di entità astratta che mi ha tenuto a lungo compagnia durante la mia crescita. 
Gli aneddoti dell‘infanzia di mio padre comprendevano un capitolo significativo su scambi commerciali molto singolari, in tempo di guerra, tra un bambino ed un gruppo di giovani soldati per accaparrarsi, in cambio di qualche grappolo d’uva “prelevato “nelle campagne, quel tedesco pane quotidiano che avrebbe sfamato la famiglia.
La cruda realtà di quella guerra mi é stata spiegata in seguito, ma io ho cristallizzato l’immagine derivata da quei racconti come il disegno innocente di un mondo pulito, dove non esiste il male, né i cattivi, né i nemici. A cavallo degli anni Sessanta e Settanta la Germania era entrata a casa mia in forma di frigorifero, forno e soprattutto automobili. La parola Germania echeggiava con una certa ricorrenza nelle continue rimembranze di una storica semifinale a Città del Messico nel ‘70 vinta eroicamente dall‘Italia sulla Germania per 4-3 ai tempi supplementari.
Venivo coinvolta in ricordi di cui non potevo disporre, essendo all‘epoca troppo piccola, ma resi così vivi da mio fratello Giuseppe e dagli altri membri della famiglia, che li avevo fatti miei. Nel 1974, invece, ho potuto assistere alla vittoria della Coppa del Mondo da parte della Germania Ovest ed incominciare a familiarizzare con la durezza di certi nomi di leggende del calcio.
A scuola avevo imparato che le Germanie erano due e andavano studiate separatamente. L‘idea di un muro che tagliava in due una città suscitava in me un senso di profonda ingiustizia. Poi negli anni si sono accumulate le prove di avvicinamento alla cultura tedesca, anche se il primo evento significativo é stato nuovamente un incontro di calcio, questa volta la vittoria dell’Italia nella finale dei Mondiali dell‘82, con le immagini televisive che riprendevano la passionalità di un Presidente con la pipa accanto alla rigidità statuaria del suo deluso collega. In seguito i miei tormenti adolescenziali abbracciavano con entusiasmo i dolori del giovane Werther e lo spirito ribelle si trovava perfettamente a suo agio nello Sturm und Drang e nel titanismo.
Accanto alla letteratura adoravo la storia della filosofia. Nonostante il mio amore sconfinato verso la filosofia e tutta la cultura greca antica, dovuto probabilmente alla Magna Grecia presente nel mio sangue, nel mio cognome e nella forma del mio naso, é stata l‘immersione nel pensiero della filosofia tedesca a rivelarsi totalizzante (Mi sarò finalmente scrollata di dosso quel faticoso imperativo categorico kantiano?).
Paradossalmente alla fascinazione si accompagnava un netto rifiuto della lingua. Non mi piaceva proprio! 
Qualche anno dopo cadeva il Muro, la Germania si riuniva e la sua squadra di calcio vinceva il Mondiale in Italia. Provavo un sapore di entusiasmo. Mi appassionavo al cinema tedesco,
ascoltavo con interesse i racconti della mia amica Irene che aveva vissuto a Berlino e si era trovata testimone di un pezzo di storia in quel novembre ‘89. 
Al termine dell‘esperienza universitaria, l’apprendimento della lingua sarebbe diventata la sfida inevitabile per comprendere finalmente a fondo la cultura germanica che in varie forme continuava a stuzzicarmi.
In un mio precedente testo ho già descritto i tempi immediatamente successivi al mio trasferimento
e le ragioni sentimentali che hanno dato un‘accelerata alla mia decisione. Piano piano, avevo finito
di fare a botte con la lingua tedesca e cominciavo ad ammirarne i segreti.
Mi sono ritrovata a vivere e a lavorare in un Paese ancora scosso dalla prima crisi economica successiva al processo di riunificazione, in un clima di grande fermento sociale. La Germania era unita, dietro ad un immane sacrificio economico dei cittadini dell‘Ovest e con uno schianto di disillusione da parte di molti cittadini dell‘Est, i cui soldi erano divenuti carta straccia e le loro qualifiche professionali tutte da ridefinire. Nonostante tutto, in pochi anni avevo potuto assistere alla realizzazione di un piano, forse di un sogno che nel mio Paese dopo 150 anni non era ancora riuscito. 
Vivevo in una democrazia stabile, dove lo Stato sociale non era un‘utopia, i diritti civili una realtà in Italia ancora latitante. I telegiornali informavano, non urlavano le notizie e soprattutto erano esenti da lottizzazioni partitiche. I giornali avevano i loro orientamenti più o meno conservatori, più o meno liberali o più o meno socialdemocratici, in assoluta trasparenza. La Bild era il giornale del pettegolezzo e dei luoghi comuni. Un politico, se soltanto in odore di scandalo, rassegnava subito le dimissioni. Il Bayern München era la grande rivale da battere ed il discorso finiva lì. Un piccolo scorcio di una brillante ed efficiente Germania istituzionale. 
Era però la Germania della mia quotidianità che cominciava a darmi un senso di separatezza.
Mi mancava l’atmosfera rassicurante del quartiere, la spesa giornaliera dal piccolo commerciante di fiducia, l’eleganza, il caffé in piedi al bar. Le piccole cose senza importanza. Quelle che con ritardo sarebbero andate scomparendo anche in Italia. Il primo vero senso di estraneità l’ho provato nel mio nuovo ruolo di madre. In questa dimensione già di per sé totalmente sconosciuta mi ritrovavo a fronteggiare evidenti differenze culturali nel metodo educativo. 
É indubbio che la diversità é una splendida occasione di allargamento dei propri orizzonti, ma determinate abitudini consolidate nella mentalità educativa tedesca costituivano per me scelte inaccettabili. Per citare un esempio banale, l‘obbligo per i bambini di andare a dormire alle 19, lasciandoli piangere nella loro cameretta fino allo sfinimento. 
Ho sempre stimato, invece, la diffusa capacità di crescere i figli ad una sempre maggiore autonomia sin da piccoli. Molti figli italiani, soprattutto se maschi, ne trarrebbero grande giovamento! 
La mia Germania più deludente, se non addirittura sconvolgente, é stata ed é tuttora quella del mondo della scuola.
É stato un orrore scoprire la rigidissima procedura per l’inserimento nella scuola elementare (4 test in 4 enti diversi, tralascio i dettagli sul contenuto delle prove). Dopo soli quattro anni l’accesso ad una delle tre forme di scuola superiore determinato inderogabilmente dal punteggio della pagella finale.
Il destino di un bambino di 8,9 anni in un numero. 
Una competitività largamente incoraggiata.
Un‘impostazione ben poco umanistica. Devo precisare per onestà che ciò é vero per la Baviera, in Germania anche il sistema scolastico é federale, varia da regione a regione. L’Università però é gratuita per tutti. Esemplare é il sistema che non solo permette ma che assicura l‘inserimento nel
mondo del lavoro, indipendentemente dal titolo di studio conseguito.
Ecco, nel bene e nel male questo é uno spaccato della mia Germania: una terra dove ci si sente più tutelati, dove la Costituzione é rispettata, dove il sistema sanitario non é ancora a pezzi, dove le donne subiscono meno condizionamenti (e meno violenza!), dove la diversità é un diritto, dove gli italiani sono amatissimi e tanto, tanto simpatici (finché non dimostrano di essere più bravi, magari in una semifinale di calcio in casa loro).
Un Paese disgraziatamente sempre più simile agli altri Paesi europei, ingabbiati in un’Europa senza identità. Sono entrata nell’attraente Germania di Helmut Kohl e dopo quasi trent’anni, con rimpianto, mi ritrovo nella sbiadita Germania di Olaf Scholz. Il sibilo del richiamo tace. Straniera qui, estranea in Italia. E poi ci sono i tedeschi. É buffo, due radici linguistiche diverse per definire il Paese ed il popolo che lo abita. 
Mi si chiede spesso: come sono i tedeschi?
Innanzitutto un tedesco di Monaco non é uguale ad un tedesco di Amburgo, così come un veneto
non é uguale ad un calabrese. 
Ma soprattutto i tedeschi sono persone, rispondo io.

Data: 11-01-2024
Giuseppe BAMBACE
CORSO DI SCRITTURA – LETTERA G2


GIROTONDO


Qualche anno fa in un’estate asciutta e luminosa, mi ero cimentato in un pellegrinaggio lungo l’appennino.
Durante una tappa in un bivacco improvvisato, ai margini di un’ampia vallata, tra dolci colline e prati fioriti, vidi giungere un vecchio viandante, dal passo cadenzato sorretto da un robusto bastone, dalla lunga barba incolta e vestiti modesti. 
Mi salutò con un semplice gesto senza proferire parola e sedette accanto al fuoco. 
Il suo sguardo fiero mi incuriosì e terminata la cena frugale lo interrogai, per conoscere quale pulsione lo motivava ad intraprendere il cammino alla sua età avanzata.
“Girotondo” mi rispose. “Un uomo saggio conosciuto per un caso fortunato della sorte, mi ha affidato una piantina, perché possa metterla a dimora, solo quando abbia trovato un luogo dove gli uomini siano capaci di tenersi per mano”.
“E’ un messaggio difficile da interpretare” obiettai, ma il vecchio rilassò il volto, le rughe scavate dal sole e dal vento si chiusero in una lieve espressione, che somigliava ad un sorriso, e mi apostrofò con voce calma e profonda “La risposta griderà dentro di te ed allora saprai di aver raggiunto la meta. 
Mentre proferiva queste parole, il saggio splendeva di un’aura così carismatica, che non ho potuto sottrarmi al compito che mi aveva assegnato”.
“Quindi come hai affrontato la missione?” chiesi sempre più intrigato dalla misteriosa situazione.
“Ho vagato per lunghissimo tempo, non ricordo nemmeno quanto. Ho attraversato paesi in guerra, altri in cui accidia e invidia trasudavano dai muri delle case, altri ancora in cui le strade risuonavano del pianto di bambini o del rumore sordo di imposte richiuse frettolosamente al mio passaggio. 
Ho visto schiavi e padroni, ricchezza smisurata e povertà assoluta.
Un giorno di primavera mentre attraversavo un piccolo paese di capanne cercando riparo dalla pioggia battente, inaspettatamente si aprì un uscio ed una figura imponente ma gentile mi ospitò nella sua dimora, dove mi fu permesso di asciugare i vestiti zuppi e dividere con lui il pane ed il vino. 
In quell’istante compresi il messaggio del mio vate, la fiducia nel bene come forza salvifica dell’umanità.
Quel giorno in un bel prato ai margini del paese misi a dimora la mia piantina. 
Le nubi si diradarono, il sole si affacciò gioioso, la piantina istantaneamente crebbe per trasformarsi in un ulivo ritorto dalla folta chioma.
Venni sopraffatto da quella visione e finalmente potei improvvisare il mio girotondo intorno al suo fusto nodoso.
Da allora porto un ramoscello in ogni paese che visito, per diffondere la magia dell’amore, di tanto in tanto faccio ritorno all’ulivo per rinnovare l’energia della promessa, prima di riprendere il cammino”.
Quindi tacque e rimase assorto nei riccioli di fumo della sua pipa di sughero. Quella notte mi sentii come rifocillato dalla narrazione del vecchio intorno al fuoco, servita su un cielo apparecchiato di stelle.
Il mattino seguente ci alzammo di buon’ora e ciascuno riprese il suo cammino in silenzio. 
Non ci fu modo di salvare un numero a cui chiamarlo, il vecchio non disponeva di cellulare.
Nonostante ciò un’affinità spirituale ci ha sempre tenuti in contatto, ogni volta che ripenso al suo predicato, mi sovviene un girotondo, cantato in coro dai pupazzi animati, protagonisti di un programma televisivo degli anni ‘60:

GIRO GIRETTO GIRO GIRELLO 
ESSERE AMICI È DAVVERO BELLO,
GIRO GIRINO GIRO GIRE’ 
NIENTE DI MEGLIO AL MONDO C’E’
CHE STARE ALLEGRI IN BUONA ARMONIA
GIRO GIRELLA GIRELLERIA!

La filastrocca del girotondo era la sigla finale del programma per bambini trasmesso dalla TSI televisione svizzera italiana a partire dal 1969, che si intitolava Cappuccetto a Pois. I pupazzi erano di Maria Perego, la stessa autrice del pupazzo di Topo Gigio. Su youtube si trovano ancora alcuni episodi e la sigla finale.



Guerra

Autrice : Celo
Mio nonno morì in guerra; a noi bambini veniva così spiegato: era medico ... hanno bombardato l’ospedale ed è morto. 
Poi comunque ti rimane come un ronzio in testa, ma essendosi risposata la nonna ed essendo rimasto traumatizzato mio padre, che al momento del fatto aveva 10 anni,  tutto finì nel dimenticatoio, finché il ronzio è diventato un rombo di tuono e ho voluto documentarmi, ma come ? A chi potevo chiedere?  Ma a Siri ! Quindi ho preso il cell e ho chiesto: che cosa è successo il 18 gennaio 1943, data ufficiale del decesso del capitano medico Mario Vaccari, a Tripoli? 
E sono venuta a conoscenza del fatto che gli alleati avevano bombardato per giorni la zona, quindi anche l’ospedale, tanto che le truppe italiane e tedesche erano evacuate e  il 23 gennaio gli inglesi avevano occupato Tripoli.

Che cosa mi rimane di lui, oltre a qualche foto e un po’ di corredo cromosomico? 
Due coperte, una di colore nero, marrone e grigio scuro, che potete vedere nel film Foglie al vento di Aki Kaurismaki sul letto della protagonista, anche se mia nonna diceva che era di un  medico finlandese della Croce Rossa come dimostra la scritta ricamata,  l'altra a righe di colore senape, rosso e verde scuro che avrete probabilmente visto sulle spalle dei migranti in arrivo dalla Libia; quest’ultima la uso tutt’ora e quando la scrollo fuori dalla finestra ho paura che mi prendano per un’altra persona.

Gatti in musica

Autrice: Gabriella
Gatti e musica, due passioni che spesso si incontrano. 
Da sempre i felini hanno ispirato artisti di ogni genere, dall'arte figurativa alla cinematografia.
E naturalmente anche la musica non poteva essere da meno. Ci sono moltissime canzoni che evidenziano il fascino misterioso di questi animali. 
Andiamo ad esplorarne alcune delle migliori, per scoprire come questi felini hanno ispirato la creatività degli artisti di ogni epoca e di ogni genere musicale.

“QUARANTAQUATTRO GATTI” di Giuseppe Casarini.
Non si può non iniziare da quella più classica, dell'inno dei gatti senza padrone che organizzano una riunione in cantina per valutare la situazione. Quella fila per sei col resto di due ormai fa parte dell'immaginario collettivo. Un brano senza tempo che nel 1968 vinse lo Zecchino d'Oro.

“LA GATTA” di Gino Paoli.
Chi non ha sognato una gatta con una macchia nera sul muso, come una soffitta vicino al mare?
La storia narra che sia tutto vero, che quella finestra ad un passo dal cielo blu sia nel borgo di Boccadasse vicino a Genova, un luogo con tanti gatti.

“MALEDETTO GATTO” di Lucio Battisti.
Il gatto visto come 'l'animale solitario', un po' subdolo e pazzo, che non è facile da decifrare.
Quasi come la donna amata dal cantante, che ha queste caratteristiche, Quindi maledetto questo gatto. O meglio maledetto il carattere della donna che non si fa amare in modo “semplice” dal nostro Battisti.

“IL GATTO E LA VOLPE” di Edoardo Bennato.
Il cantautore napoletano nelle sue accuse al mondo della discografia, dopo l'invettiva di 'Sono solo canzonette', prende spunto dalla storia di Pinocchio per accusare di ladrocinio i discografici. 
Infatti nella canzone si parla dei due animali come impresari, che gli garantiscono il successo in cambio dei diritti sulle canzoni.

“PENELOPE” di Francesco Baccini.
Una canzone che all'inizio gioca sul mistero. Penelope è una donna amata dall'artista. 
Solo apparentemente, perché dopo poco capiranno che non è esattamente un amore umano. Si tratta della gatta amata dal cantante che l'ha chiamata Penelope perché, come la moglie di Ulisse, lo aspetta a casa e fa le fusa (gioco di parole con il fuso con cui Penelope tesseva la sua tela).

“DELILAH” dei Queen.
Freddy Mercury dei Qeen, amava i gatti. Lui ne aveva tantissimi e ognuno con un nome particolare e un carattere ben definito. Decise di dedicare questo brano al suo gatto preferito, la regina della casa, Delilah. In molti, all'epoca la scambiarono per una canzone d'amore per una donna.

“YEAR OF THE CAT” di Al Stewart.
Nel 1976 il cantante pubblica un album emblematico: “L'anno del gatto”. Fin dalla copertina del disco il gatto è protagonista.
Passando alla cinematografia, vediamo alcuni esempi di film musicali con protagonisti dei gatti.

“SIAMO GATTI” di Samuele Bersani.
Colonna sonora e brano importante del cartone animato “La gabbianella e il gatto”. Questo è un vero e proprio inno ai gatti, all' essere gatto. Un brano che fa innamorare di questo magico animale sia i grandi che i piccini, Va cantato tutti in coro.

“GLI ARISTOGATTI”, celebre film di animazione della Disney in cui si intecciano le storie di una famiglia di felini domestici altolocati che studiano il pianoforte, mentre un gruppo di gatti randagi suona il jazz.

“CATS” di Andrew Lloyd Webber.
E' uno dei più famosi musical del mondo, del 1981 ed ha avuto grande successo. Tratto da una raccolta di poesie di Thomas Elliot aventi gatti come protagonisti. Le poesie erano in realtà,
inizialmente lettere che il poeta scriveva ai suoi nipotini e che venivano successivamente pubblicate. Lloyd Webber ha musicato tutte le poesie della raccolta per costruire la storia del musical.

Da ricordare anche alcuni gruppi musicali che inseriscono il termine “gatti” nel loro nome, per esempio I GATTI DI VICOLO MIRACOLI e gli americani STRAY CATS (gatti randagi).


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