Lettera P2: Stefania Perché - Giuseppe Pensionato

LABORATORIO DI SCRITTURA – LETTERA P

PERCHE’

Autrice: Stefania BAMBACE

Data: 20 Giugno 2024

Perché l‘asino non vola? Perché piove sempre in giù? Perché il nonno ha due baffoni e la nonna non li ha? 

L‘incalzare ossessivo delle innocenti domande infantili solitamente coglie gli adulti impreparati (e per questo spesso perfino infastiditi) a fornire un‘adeguata soluzione a legittimi quesiti esistenziali. In quanto figura educativa di riferimento l‘adulto non può riconoscere la sua pusillanimità ed ignoranza al cospetto di un bambino, dunque é costretto a mascherare la propria personalissima crisi dinanzi all‘ imponderabilità della vita e ai misteri dell’universo riducendo la grandezza delle domande a risposte ben poco soddisfacenti. L’alternativa più nobile é quella di tentare di restituire alle domande la loro dignità, racchiudendole in filastrocche e rime da tramandare come patrimonio culturale (Ad esempio come in quella citata ad inizio pagina). 

In età scolare i perché vengono gradatamente veicolati e la loro originalità é spesso repressa. Paradossalmente é il sistema ora il depositario di domande a cui gli studenti si devono sforzare di rispondere. Eppure in quella antica, naturale curiosità puerile é già contenuto il seme di una perenne ricerca che sarà più o meno tormentata in base all‘evoluzione di ciascun individuo. Il maestro Sciascia divideva l‘umanità in cinque categorie. Nella mia totale insignificanza, ma ispirandomi affascinata a quella magistrale catalogazione, ho spesso fatto del PERCHÉ il metro con cui misurare le diverse sensibilità umane. D‘altra parte il mio fratello medico ha a lungo sostenuto la teoria secondo cui una risonanza magnetica avrebbe rivelato la reale forma del mio cervello: un punto interrogativo. Era il suo modo affettuoso di dileggiare la mia predilezione a spacchettare la vita con le domande. La qualità dei perché, dunque, era la discriminante con cui, a mio parere, si differenziavano le persone. Divise, nell‘ordine, in:

- MEDIOCRI, sazi delle risposte date da altri per conto loro, gocciolanti di banalità.

- AVIDI, i cui perché erano per lo più dei perché non…guidati da una mera rabbiosa volontà di riempimento e di accumulo seriale.

- SCIENZIATI, per i quali ad ogni perché? doveva necessariamente corrispondere un perché, punto.

- FILOSOFI o UMANISTI, intolleranti alla lettura superficiale delle cose, raramente soddisfatti.

- SEMPLICI, coloro che riducevano saggiamente le domande all‘essenziale e sapevano riempire il quotidiano di piccole gioie e di gratitudine.

- DISPERATI, con tutte le buone ragioni per gridare il loro perché carico di dolore.

- Fuori categoria, tutti coloro che di domande proprio non se ne ponevano.

- La mia non voleva essere una catalogazione rigida, era un assunto tipicamente adolescenziale. Il percorso dei miei personalissimi perché é stato anch‘esso variegato, la consistenza e la qualità dei quesiti é andata via via modificandosi in base alle diverse tappe ed esperienze del momento. Da grandi domande di natura trascendentale a vette meno ambiziose, domande retoriche al solo scopo di rafforzare il contenuto (il mio, naturalmente), a frasi interrogative per proferire elevati dubbi e tormenti animici (o amletici, per emulazione), dalle inquietudini sugli incomprensibili mali del mondo allo spostamento del “perché” al più futile “come ho fatto“(spesso riferito a clamorose sviste amorose), ecc…

Nella mia ricerca compulsiva di perché, di analisi, di interpretazioni, alla fine credo di aver capito che, per quanto legittimo sia un perché interrogativo talvolta é irragionevole pretendere di arrivare ad un perché esplicativo. Ci sono eventi o ambiti della vita che si possono solo attraversare ed abbracciare, non con rassegnazione ma con consapevole accettazione. Impossibile comprenderli. Non solo, é inutile. 

Se riflettiamo con onestà, dinanzi ad un fatto doloroso tutti noi reagiamo chiedendoci perché ma in realtà non ci interessa ricevere una spiegazione, ciò che vogliamo é che quel dolore sparisca. Il perché richiamerebbe solo molti altri perché, all‘infinito. Il perché incorpora una resistenza inutile, che crea ancora maggior dolore. 

Mi piace sorridere di noi stessi, di me stessa, soprattutto, e nei momenti di buio a volte penso alla semplicità della natura, pur nella sua durezza. La mia bimba interiore si diverte ad Immaginare i pensieri di un seme che deve germogliare ed inveisce chiedendosi perché gli hanno messo tutta quella terra sopra, perché ??? e se esiste un Dio allora deve riparare a questa ingiustizia e farlo uscire, senza che debba soffrire per bucare tutta quella terra e così via, ogni essere vivente partecipa alla discussione e dà voce alla propria lamentela sul perché di una vita durissima ed iniqua. Immagino la scena e rido da sola. 

Ed ora, sopraffatta da una gioia incontenibile e genuina per aver conosciuto voi, meravigliosi amici del gruppo, pietre preziose, pagine stupende del più bel libro che abbia mai letto, dovrei forse chiedermi perché é accaduto? Certo che no, sarebbe una nota stonata, stonatissima in questa perfetta sinfonia di voci che mi avete donato. Tengo stretta la mia gioia, in attesa del nostro autunno PERCHÉ tempo e distanza non sono che parole.


Data: 20-06-2024

Autore: Giuseppe BAMBACE

PENSIONATO


Comunemente definito come il dipendente messo a riposo con trattamento di pensione. Rigetto categoricamente questa asserzione. Nella società contemporanea il pensionato ha assunto i connotati di una figura mitologica, una divinità antica e moderna al tempo stesso, un Giano raffigurato nella versione quadrifronte, rivolto ai quattro punti cardinali a simboleggiare i molteplici ruoli che ricopre. Tradotto in assioma di vita quotidiana “Il problema con la pensione è che non hai mai un giorno libero”.

Del tutto ignaro di questa dimensione, avevo deciso di concludere la stagione lavorativa, spronato da segnali inequivocabili sull’avvento di una realtà che non condividevo, che non mi apparteneva.

In pratica, quando i nuovi managers hanno inaugurato la stagione dei conflitti, gestiti col ricorso puntuale allo studio legale, delle riunioni fiume, di schemi e di procedure standard, spingendo la responsabilità verso il basso e privilegiando la logica della ricerca del colpevole alla strategia di risoluzione dei problemi. Ma soprattutto quando con sempre maggiore frequenza i nuovi colleghi mi apostrofavano sorpresi (cito in ordine di importanza):

“Mio padre è nato nel tuo stesso anno”

“Hai aggiornato il planning su Outlook?”

Orologio alla mano ad ogni intervento in riunione “Alexa imposta il timer su 10 minuti”

Non è stata una resa, ma una scelta consapevole. Considerata la tendenza all’innalzamento dell’età pensionabile, ho pronunciato a me stesso la risoluzione che la pensione andava presa da vivi, per evitare che lo stadio di declino psichico mi cogliesse ancora sul lavoro, intento a correggere i documenti col bianchetto sullo schermo del pc.

Quindi novello Alice nel Paese delle Meraviglie, mi sono addentrato in un ambiente sconosciuto, ma pieno di promesse. L’esordio è stato traumatico, un ginepraio irto di rovi spinosi dai nomi inquietanti, pensione retributiva, contributiva ma solo dopo l’anno x, anticipata, provvisoria, vecchiaia, anzianità. Ma dopo mesi di apprensione e correzioni dell’ultimo minuto, ho finalmente aperto la porta dell’età post lavorativa col chiavistello Quota 100.

Dopo un breve transitorio di ambientamento, allietato comunque dal principio Domani mi alzo tardi, ho individuato il mio spirito guida, che ancora oggi mi gratifica con scampoli quotidiani di serenità. Questa fase evolutiva è espressa magnificamente da una riflessione di Simone de Beauvoir:

C'è quasi sempre un'ambivalenza nel lavoro, che è al tempo stesso un asservimento, una fatica, ma anche una fonte d'interesse, un elemento di equilibrio, e un fattore di integrazione alla società.

Quest'ambiguità si riflette nella pensione, che si può considerare come una specie di grande vacanza, o come una caduta tra gli scarti”. Mai citazione fu più profetica. A distanza di due anni dal passaggio attraverso questo tunnel spazio temporale, osservo e distinguo diverse specie di pensionati, suddivise nelle categorie principali:

Familiarmente utile, socialmente utile, inutile, solitario, solo.

La prima si contraddistingue dall’abnegazione con cui intrattengono i nipotini, i cui giochi richiedono doti atletiche non trascurabili, o del cane che spesso li trascina nella passeggiata mattutina. Esausti al termine della giornata, ma pieni di orgoglio dispensano i tipici sorrisi di chi è compiaciuto di ricoprire un ruolo importante.

La seconda, in fase di estinzione, vedeva i protagonisti armati di giubbino ad alta visibilità e paletta dirigere in modo inflessibile il traffico davanti alle scuole nell’orario di entrata e uscita degli scolari.

La terza è la più rappresentata; quando i servigi non vengono più considerati necessari, si riempie il tempo esplorando i cantieri a mani giunte sulla schiena dispensando consigli non voluti a lavoratori infastiditi. Oppure apparecchiando tavoli all’aperto coi giochi di carte, o seduti sulle panchine confrontandosi su esami clinici e terapie, conversando di sport mai praticati o di politica spicciola, o ancora affollando piste da ballo su cui far volteggiare i ricordi di vacanze estive al ritmo di valzer polka e mazurka.

La quarta la considero la più malinconica, mentre li osservo vestiti di tutto punto trascorrere ore intere seduti in disparte assorti nei pensieri, altrimenti cercare conforto nel nutrire gli animali che popolano stagni e alberi del parco cittadino, per sfuggire ai loro appartamenti pieni di ricordi e per rompere l’assedio della solitudine.

Non voglio dilungarmi sull’ultima, costituita da creature considerate ormai un peso insopportabile, dimenticate, abbandonate sulle sponde dello Stige, esempio crudele della logica degli scarti, imperante in una società impostata sulla schiavitù del PIL e del profitto.

Per quanto mi riguarda, non riesco a collocarmi in nessuna di queste categorie. Ho sempre cercato di rifuggire le etichette nella vita, persino nella squadra di calcio del liceo il libero era l’unico ruolo possibile adatto alla mia indole. Perciò vivo la figura di pensionato come uno stato di grazia, che mi consente di restringere la rubrica telefonica agli amici presenti, di non dilapidare il tempo con chiunque possa infettarmi di energia negativa, di consolidare le relazioni umane piene di luce e di colori, di beneficiare dell’effetto terapeutico della natura. Rallentare, guadagnare i dettagli del panorama attorno, recuperare il senso delle proprie azioni, soddisfare l’appetito di nuova conoscenza, in sintesi riappropriarsi della propria vita con leggerezza, “sottrazione di peso” come l’ha definita Italo Calvino, applicata ai personaggi di una storia, ma soprattutto alla sua struttura e al suo linguaggio.

In questa accezione uno degli esiti più luminosi è stata la gioia inattesa di partecipare al gruppo di scrittura composto da splendide persone, con cui condividere sentimenti, ricordi, emozioni, mentre quasi inconsapevolmente si affina la ricerca espressiva, nel corso di quelle che mi piace definire conversazioni creative. Un’oasi di serenità, al riparo dalle nubi di questo tempo oscuro.

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