Lettera S Mia - Stefania - Giuseppe

 LETTERA A UN BURATTINO

 Samira mi domanda perché hai scelto lei come il tuo burattino. Vedi, Samira, tu mi diverti, io posso immaginarti, tu viaggi, tu sei antica e sei moderna, tu hai una storia e so che sei creativa. Allora ti posso raccontare le tue stesse avventure, ma sta attenta: posso anche dire bugie. 

Quando ero bambina dicevo che dire bugie era avere fantasia o, meglio, avere immaginazione. Ti ho fatto viaggiare, Samira, perché avevo voglia di vedere posti differenti e anche disegnarli, immaginarli, sentirli, e incontrarmi con personaggi incredibili, fuori dal tempo e fuori dalle pagine dei libri. 

Volevo, per te, inventare personaggi e per questo ti ho messo in un tempo di parecchi secoli fa; e poi ti ho fatto riapparire in questo secolo e in un luogo determinato, e il luogo é stato Parigi perché Parigi è stata la città di cui mi sono innamorata a prima vista, molti anni fa, nel mio primo viaggio in Europa. Così ti ho mandato a Parigi, e perché un po’ romantica lo sono, ti ho dato un amore, e questo amore si poteva trasformare magicamente in un gatto, un gatto nero dagli occhi gialli - come il mio Miciulin - che ti poteva svelare i segreti della città. Ma in realtà quello che io desideravo con te era divertirmi. 

Ma tu mi domandi perché, nei secoli prima, ti ho mandato in Spagna, e allora devo ricordare la mia formazione, da una famiglia di intellettuali, che mi ha obbligato a cercare il tuo tempo e le tue origini. E così ho saputo di una famiglia con un cognome spagnolo che, tradotto all’italiano, sarebbe il cognome di mia madre, che era là nel quindicesimo secolo e che sono forse emigrati prima in Francia e poi in Italia al tempo di Isabella di Aragona. 

Non so se scriverò ancora di te, ma certamente ora non farò un nuovo burattino, o burattina, ma per ora tu mi rappresenti.


LABORATORIO DI SCRITTURA – LETTERA S

Autrice: Stefania BAMBACE

SENTIRE IL SILENZIO

Data: 07 Marzo 2024

Ho bisogno di sentire il silenzio. Di accogliere la coniugazione di due immensi universi, la completezza del verbo sentire e la polifonia del sostantivo silenzio, pur con qualche sua nota stonata e disarmonica che tanto duole. Come poche altre lingue, l‘italiano si fregia di un sentire che comprende l‘umano nella sua interezza. Sentire coinvolge infatti tutta la sfera sensoriale (fatto salvo il senso della vista che, guarda caso, è quello di cui spesso abusiamo, trascurando gli altri). 

Sentiamo suoni, odori, sapori, riconosciamo ciò che sentiamo attraverso il tatto, proviamo una sensazione fisica (sentire freddo, caldo, sentirsi bene o male), o ancora una sensazione quale espressione fisica di un‘emozione (sentire un nodo alla gola, un tuffo al cuore). É il verbo delle intuizioni (sento che…), ovviamente dei sentimenti (sentire amore, odio, pietà) e decine di altri significati figurativi in cui sentire diventa il tramite verbale per descrivere i nostri moti interiori. É persino la formula fissa per dare l’avvio alle nostre asserzioni: quel “senti “che, in base alla tonalità con cui viene pronunciato, già anticipa il valore ed il peso della comunicazione che segue (senti…. senti! senti un po’…. senti senti…). 

Il compendio di tanta potenzialità si ritrova in una delle poesie della mia amata Alda Merini, intitolata per l‘appunto “Mi piace il verbo sentire “. Particolarmente caro mi è il verso che recita: “-mi piace…-sentire una penna che traccia sentimenti su un foglio bianco “. Qualunque osservazione io possa aggiungere sporcherebbe una tale moderna elegia. Mi limito a ribadire, quasi legittimata dal componimento poetico, che sentire il silenzio è un’esperienza totalizzante, che riguarda la sfera sensoriale ma anche quella cognitiva e spirituale. Ma è corretto affiancare al sostantivo “silenzio” l’articolo? Quasi il silenzio fosse davvero solo uno e determinato? Non è forse un’entità molto più vasta, che ha mille eco diverse? Sono tante le tipologie di silenzio con cui ho fatto conoscenza. Ciascuna di esse portava con sé un suono, un gusto, un odore, un‘estasi o una sofferenza. Il silenzio non è sempre assenza di parole. A volte è il momento o lo spazio vuoto tra le parole che, quasi magicamente, riempie di senso il tutto. Come le pause nella musica o la punteggiatura in un testo letterario. Ti lasciano il tempo necessario per gustare, riflettere, comprendere. É un silenzio rivelatore che impedisce una sequenza caotica di rumori. Non sono ancora esente dalla fatica di comprendere (prendere dentro) il valore terapeutico del silenzio interiore. Sospendere il mormorio della mente, spegnere i pensieri ed entrare in relazione profonda con le mie verità. É uno sforzo necessario se si vuole veramente capire sé stessi e capire gli altri ma quanto poco siamo allenati e capaci di fare silenzio. Quanta paura a volte nel ritrovarsi immersi in un silenzio che ci interpella, costretti ad ascoltare voci che non ci piacciono! Quanti vuoti riempiamo e quante menzogne copriamo con il chiasso pur sempre meno assordante di un silenzio che ci riporta all‘autenticità! Eppure da millenni l‘introspezione è la via privilegiata per il dialogo non solo con noi stessi ma anche con il divino. Che si tratti di meditazione orientale o di adorazione eucaristica, occorre tacere per poter ascoltare la voce di Dio. Ma noi, e noi occidentali in particolare, abbiamo un bisogno compulsivo di intrattenimento, di distrazione, stordiamo le nostre preghiere di parole ed in una situazione di raccoglimento pensiamo alle bollette da pagare.

Persino quando ci viene richiesto un minuto di silenzio in memoria di una persona da poco defunta, dopo pochi secondi ci lasciamo andare ad un fragoroso applauso. Esiste poi una perversione del silenzio, il sintomo di un’incomunicabilità in una società che urla ad alto volume ma non si parla e non si ascolta. Anche il silenzio dell‘universo non è mai zitto, ma si tratta di tutt‘altra dimensione. E anche in questo frangente è la nostra voce a dover tacere perché la Natura ci possa parlare. É grazie al mio silenzio che ho potuto udire il suono del vento, gustare il sapore salmastro della risacca, immergermi in tutte le gradazioni di profumo che mi è stato concesso di provare. Anche tutto questo era la voce del silenzio. Di tante note di silenzio. Era sentire. Ho conosciuto anche silenzi tremendi. Il silenzio sordo di una casa vuota che mi ricorda chi non c‘è più. Il mio silenzio davanti al più indicibile dei misteri. Il silenzio della mancanza. So l‘orrore del silenzio punitivo, imposto, che lascia sgomento e destabilizza, con la potenza di un‘aggressione che ammala. Ho assaggiato talvolta il sapore amaro di un silenzio non cercato, che sapeva di solitudine mentre le parole rivendicavano la loro urgenza ed invece restavano schiacciate in qualche luogo della mente e del cuore. Ho letto nei libri di storia ed ascoltato nei notiziari dei nostri giorni il silenzio colpevole dell‘indifferenza, temendo di non esserne immune. Sul versante opposto, però, ho assaporato la squisita dolcezza dei silenzi d‘amore e ne ho trattenuto con golosità ogni sillaba.  Ci sono silenzi salvifici. Ho bisogno di silenzio. Di sentire silenzio. Di recuperare al fondo del silenzio ciò che non ha ancora un nome.


CORSO DI SCRITTURA – LETTERA S2

Giuseppe BAMBACE

SOHAR – SULTANATO DELL’OMAN

07-03-2024

La notizia giunse all’improvviso, anche se da qualche tempo si respirava un cauto ottimismo sulla positiva conclusione della trattativa per un nuovo progetto nella penisola arabica.

Ad una settimana dal Natale 2014, quando già le luci dell’albero illuminavano la sala, il servizio buono era pronto per apparecchiare la tavola della tradizione con fratelli e nipoti, il menù della vigilia rigorosamente di pesce come ci aveva insegnato mamma era stato messo a punto, dovevo preparare il trolley per partecipare alla riunione di lancio del progetto nel Sultanato di Oman, nella città portuale di Sohar, poco più di 200.000 abitanti affacciati sul golfo di Oman.

Poco tempo per riordinare le idee e le emozioni, prima di raggiungere la terra che la leggenda indica come il luogo di nascita di Sindbad il marinaio e narra delle sue fantastiche avventure nei sette viaggi in Africa orientale e Asia meridionale, durante i quali visita luoghi incantati, incontra mostri feroci ed affronta eventi tempestosi.

A distanza di mille anni da quella dimensione onirica, l’attualità racconta di un popolo di età media di soli 24 anni che il sultano Qābūs stava cercando di traghettare nel XXI secolo grazie ai proventi di petrolio e gas, modernizzando la società ancora ad organizzazione tribale e con economia fondata su attività di pastorizia e coltivazione di palmeti da dattero.

Quindi il 17 dicembre salgo a bordo di un volo notturno delle linee Oman Air, lungo la rotta balcanica, per poi sorvolare Siria, Iraq, iniziare la discesa sullo stretto di Hormuz prima di atterrare a Muscat, terre che lasciano il cuore inquieto, che evocano gli scenari dele guerre che le hanno insanguinate all’inizio degli anni ’90.

Dopo la notte insonne, ecco l’Oman sotto l’alba di un sole velato di foschia sabbiosa, presagio di temperature tropicali. Giovani donne che indossano l’Hijab ci accolgono cordialmente allo sportello visti e sbrigano rapidamente le procedure per consentirci l’ingresso nel Paese, digitando con sveltezza sulla tastiera dei loro pc. Attraverso la sala arrivi tra una moltitudine di uomini in attesa, che indossano la tradizionale dishdasha la tunica di cotone a maniche lunghe, con ricami intorno ai polsi ed al collo. L’atmosfera è tranquilla, le voci misurate, le conversazioni sono dipinte di sorrisi e accompagnate da gesti rilassati. Il nostro autista guida un moderno SUV sull’autostrada a 3 corsie per senso di marcia, che collega la capitale con gli Emirati Arabi. Al centro dello spartitraffico i lampioni a distanza regolare di cento metri illuminano il manto stradale giorno e notte. Lungo i 250 km che ci separano da Sohar e dalla fabbrica, passiamo di fronte alla smisurata residenza del sultano protetta da alte mura e da torrette di guardia, ammiriamo alcune fortezze retaggio del passato coloniale del Paese, superiamo numerosi villaggi, dove fervono lavori di costruzione.

Noto che a differenza di Dubai e Doha, non vengono edificati grattacieli che sfidano le leggi di gravità, bensì costruiti ospedali, scuole e moschee, strade. Mi viene spiegato che il sultano ha avviato un programma di riforme, dedicate a sanità educazione e trasporti, guadagnandosi così consenso incondizionato tra la popolazione. D’altra parte, come negli altri Emirati del Golfo, per i lavori di fatica non viene impiegata manodopera omanita, ma un crogiolo di genti con netta prevalenza di indiani, bengalesi, filippini. Giungiamo finalmente in albergo per una sosta, prima di proseguire per lo stabilimento dove incontreremo il cliente. La reception è arredata in stile tradizionale, con oggetti raffinati che richiamano l’artigianato locale.

Un gigante in dishdasha color tabacco ci porge una tazza di tè e della frutta secca, il suo sorriso ospitale e la naturale gentilezza mitiga la nostra stanchezza per il lungo viaggio e semplifica le pratiche di check in. Anche in albergo il personale di servizio è di origine indiana e Paesi limitrofi. Rimarrà sempre scolpito nella mente la visione di un aiuto giardiniere, che di prima mattina, chino sulle piante disposte di fronte all’ingresso principale ne lucida ogni singola foglia dalla sabbia che si deposita costantemente, alimentata dal vento.

Appena il tempo di un breve sonno ristoratore, puntualissima l’auto di servizio ci attende per condurci in fabbrica, posta all’estremità di uno dei tre distretti industriali sorti a nord della città verso il confine con gli UAE, una sorta di castrum che ospita industrie manifatturiere di vari settori produttivi e che si estende per diversi km quadrati nella landa desertica che si affaccia sul golfo di Oman, servita da un terminal attrezzato per l’attracco di navi porta containers. Oltre l’orizzonte la costa dell’Iran non è visibile ad occhio nudo, ma se ne avverte la presenza con un peso specifico molto elevato nella tavola periodica degli equilibri geo politici della regione.

Al tavolo della trattativa, la delegazione del cliente è composta dai responsabili operativi e finanziari omaniti, mentre la direzione tecnica è affidata a consulenti statunitensi e britannici, il contratto è stato sottoposto alla revisione di un collegio di avvocati di un noto studio legale londinese. Ci è stato inoltre intimato di assumere un tecnico omanita per ogni lavoratore straniero, in conformità alla politica del sultano, tesa a formare i giovani al fianco di specialisti stranieri e dotarli di competenze specifiche, per creare una classe dirigente omanita.

L’iniziale senso di disagio di fronte a tale spiegamento di forze, è stato mutato in una promessa di fiducia reciproca, grazie alla nostra italica incoscienza di stampo garibaldino ed all’attitudine omanita di apertura nei confronti dello straniero che ha da sempre incontrato nella sua storia millenaria. Come sempre il progetto ha subito alterne fortune, e si è concluso un anno e mezzo dopo con l’accettazione finale da parte del cliente. Parafrasando un noto monologo nel film Blade Runner, ho visto cose che noi umani adagiati nella nostra zona di comfort non potremmo nemmeno immaginare. Giunti dalla vicina India attratti da condizioni economiche migliori, nugoli di operai vedevano il sogno svanire in una realtà di miseria. Li ho visti mandati allo sbaraglio a lavorare senza le conoscenze basilari e gli indumenti di lavoro adeguati, nella pausa nutrirsi con poco riso e cercare una zona d’ombra per ripararsi dal caldo opprimente al di sotto dei containers ufficio, fuggire ai quattro punti cardinali all’arrivo degli ispettori del lavoro, alloggiare in dormitori coi servizi in comune. Peraltro sono stato testimone anche di aneddoti divertenti, tra i quali ho un ricordo gustoso della pasta al forno di Antonio, preparata la sera per essere consumata durante il pranzo del giorno successivo. In assenza di fornetti elettrici adottava la soluzione green anticipando di un decennio le tecnologie attualmente in voga. All’arrivo al posteggio della fabbrica al mattino, deponeva la pasta all’interno di una vaschetta di alluminio sul cruscotto dell’auto e puntualmente la ritrovava fumante all’ora di pranzo. In effetti nei mesi estivi la temperatura max poteva sfiorare i 50 gradi, con percentuali di umidità molto elevate, per cui nel percorso dal container ufficio al capannone lungo circa 100 m i vestiti erano già zuppi, ogni supervisore era costretto a portare 5 magliette di ricambio al giorno. Ma la notte estiva per chi non tollerava l’aria condizionata era persino più soffocante, con temperature che si mantenevano oltre i 30 gradi.

L’unica consolazione era abbandonarsi alla magia della stellata sul deserto circostante, conforto silenzioso dell’anima. Invece gli omaniti reagivano con uno stile di vita improntato alla lentezza, in una commistione che ricerca la modernità senza intaccare le proprie tradizioni.

Ne sono espressione il contrasto tra i mercati di strada di tradizione beduina, dove si mercanteggiano prodotti agricoli e bestiame inclusi i dromedari, ed i centri commerciali frequentati dalle famiglie più giovani, che ricordano gli smisurati Mall statunitensi.

Come pure i sapori ed i profumi della gastronomia omanita, che racchiude le influenze dei tanti popoli che sono transitati in questa terra. Infatti l’ampio uso di spezie richiama le cucine tradizionali mediorientali con evasioni di Africa e Asia, mentre i metodi di cottura della carne e l’utilizzo della frutta secca, derivano dai paesi mediterranei ed arabi. Il cibo riconosciuto come piatto nazionale è lo shuwa accompagnato col riso biryani. Coscia di agnello avvolto in foglie di banano, interrato in una buca e cotto sotto un fuoco dolce per due giorni. Solitamente consumato in occasione della fine del Ramadan.

Rispetto ad altri Paesi della penisola arabica, le donne stanno smarcandosi dal ruolo del passato, anche se nelle realtà rurali la tradizione è ancora difficile da sradicare. Così nelle città come Sohar e Muscat le donne possono lavorare, guidare, votare, possedere proprietà e gestire un'attività, mentre nei mercati tradizionali ho fotografato donne in attesa della conclusione degli scambi, sedute sui cassoni dei pick-up insieme alle capre ed alle pecore in vendita, ancora relegate ad una condizione di inferiorità.

Persino le corse dei dromedari hanno subito il processo di automatizzazione, ho assistito a gare ufficiali nell’ippodromo di Sohar in cui il dromedario per così dire scosso è vestito di una sella provvista di frustino, comandato con un joystick dal fantino seduto all’interno del suv che guida su una corsia esterna alla pista.

Il sultano Qabus ha perseguito la sua trama di riforme fino alla sua morte avvenuta prematuramente nel 2020, nonostante i tentativi di cura a cui si stava sottoponendo in Germania già ai tempi del nostro progetto. Non avendo lasciato eredi, dopo lotte intestine all’interno della famiglia, è stato nominato suo successore il cugino Haitham bin Tariq Al Said, che in precedenza aveva ricoperto il ruolo di Ministro della Cultura, il quale ha dato continuità al piano di modernizzazione del Paese, contribuendo a consolidarne lo status politico ed economico.

Dal punto di vista diplomatico, l’Oman intrattiene rapporti neutrali sia coi Paesi confinanti che l’Iran, superando gli schieramenti di fede sunnita o sciita. La moneta Rial omanita è mantenuta stabile da un sistema di cambi fissi legato al dollaro, scambiata ancora oggi allo stesso valore di allora a circa 2 Euro, il tasso di disoccupazione è inferiore al 2%.

Infine per cercare di mitigare la dipendenza dall’export di petrolio e gas, il governo sta lanciando un piano economico in 5 macro punti, per incentivare attività legate alla pesca, al settore minerario, industria manifatturiera, logistica e soprattutto turismo, che negli ultimi anni ha goduto di forte accelerazione. Con grande rammarico non ho avuto tempo a sufficienza, per esplorare il Paese come avrei desiderato, mi rimangono le splendide cartoline del suq di Al Hujra a Sohar, dove ho ammirato i manufatti artigianali all'interno di una magnifica cinta fortificata e soprattutto l’emozione della visita alla grande moschea di Muscat, donata dal sultano ai suoi sudditi in occasione del 30 anniversario del suo regno.

L’arenaria color cipria, con cui è stata costruita, abbaglia lo sguardo ai riflessi del sole arrogante, al pari della cupola alta 50 m, dei 5 minareti, della musalla centrale interamente coperta con un unico tappeto tessuto in Iran di dimensioni 70x60 m. Ma più di tutto affascina l’atmosfera della sala principale, di raffinata eleganza e armonia, col grande lampadario di 14 m di diametro, i marmi di Carrara e le maioliche azzurre che rivestono le colonne e la parete di fondo. il silenzio mistico, il carattere avvolgente ma sobrio, invita al raccoglimento ed alla preghiera. Ma se è vero che il deserto incendia la mente fino agli estremi del miraggio, coltivo la speranza di fare ritorno a Sohar, luogo simbolo di partenza per il viaggio che richiami le rotte carovaniere dell’epoca di Sindbad, quando spezie incenso e preziosi venivano trasportati fino alle sponde del Mediterraneo orientale.

Non solo spiagge e deserti, ma immagino il viaggio in una varietà davvero inaspettata di paesaggi e di ambienti climatici, aree tropicali affacciate sull’Oceano indiano, vestite dei colori della barriera corallina, catene montuose, che creano habitat peculiari per la fauna selvatica, dove incontrare il lupo ed il leopardo arabo, canyon scavati dai torrenti (wadi), attorno ai quali si formano piccole oasi con folti palmenti e piscine naturali.

Un sogno da vivere lentamente, in armonia con lo stile di vita omanita, perché come recita un aforisma arabo “Il percorso è parte della meta”.


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