Lettera Q2: Giuseppe Stefania Grazia

 

LABORATORIO DI SCRITTURA – LETTERA Q2

SI, LA VITA È TUTT’UN QUIZ

Data: 8-02-2024
Giuseppe BAMBACE
Apprendo da Wikipedia che la parola quiz assume il significato di «indovinello, quesito» nei primi anni dell’800. L'etimologia è incerta: secondo alcuni discende dal pronome interrogativo latino quis («chi?»), secondo altri dalla forma abbreviata della parola inglese (in)quis(ition) («inquisizione»).
Personalmente propendo per questa seconda ipotesi, dal momento che alcuni quiz che dobbiamo affrontare nel corso della vita richiamano da vicino l‘inquisizione di epoca medievale.
Un amico non è ancora riuscito a superare il trauma infantile, quando gli venne sottoposto il primo dilemma esistenziale “Vuoi più bene a mamma o papà? A distanza di anni, ricade periodicamente nella fissità dello sguardo, che fu la sua reazione naturale all’insana domanda.
Si, la vita è tutta un quiz, grandi occasioni grandi emozioni, come ha scolpito nella pietra la scanzonata trasmissione tv Indietro Tutta.
Ricordo che al tempo della scuola, ci veniva chiesto di esprimere i pensieri, i sentimenti, la creatività sul candido foglio a righe. Ci eravamo appassionati al quiz televisivo in cui due squadre appartenenti a scuole di differenti regioni, giostravano su temi di cultura generale, per vincere un’enciclopedia. Ma chissà chi lo sa, esclamerebbe Febo Conti, la società è cambiata velocemente.
In una sola generazione, l’impianto scolastico è mutato in un sistema di prove a risposta multipla. Una crocetta su una delle opzioni possibili, senza argomentarne i contenuti, spiegarne le ragioni, come se lo studio si potesse ridurre ad una risposta preconfezionata, assimilabile ad un gioco a premi televisivo.
Analogamente mentre un tempo l’ingresso alla facoltà universitaria era libera da restrizioni, oggigiorno la scelta fatidica, che orienterà la stagione lavorativa, la più lunga della vita, passa attraverso la ghigliottina dei quesiti di ammissione, per azzardare un parallelo con un famoso quiz televisivo.
Ho svolto una simulazione su un sito dedicato e sono rimasto affascinato dagli argomenti di cultura generale proposti. La fantasia ha subito scatenato immagini surreali ed ironiche. Penso al chirurgo sul tavolo operatorio che esita cercando di ricordare qual è il dio greco corrispondente al dio latino Plutone oppure il giudice di un processo delicato che dubita, interrogandosi se la guerra fredda si è svolta nel periodo 46-91, 47-91 oppure 47-90.
Più alte solo le vette raggiunte dagli ideatori dei quiz per la patente, ai quali dovrei confessare che malgrado riesca a districarmi nel traffico con un certo successo da 46 anni, non saprei rispondere se il segnale triangolare raffigurato con croce nera precede il segnale dare precedenza, oppure se su strade extraurbane principali il limite massimo di velocità è di 70 km/h per autovettura che traina caravan da 900 chilogrammi. Mi chiedo se siano gli stessi ideatori delle domande grossolane del quiz tv Avanti un altro.
Almeno nell’ambito della sfera privata, i quesiti fondamentali hanno mantenuto valenza universale, prescindendo dalle stagioni della vita e dai salti generazionali.
Nel percorso della tua orbita intorno al sole un giorno intercetti il perigeo, la nota del diapason interiore accorda il lento incedere all’altare e fa pulsare le tempie di un quesito antico e complesso elaborato con un algoritmo amletico.
Seguono i quiz sulla casa, sul modello di elettrodomestico, sull’educazione dei figli alla tolleranza ed al rispetto, che richiedono scelte difficili, per assenza di esperienze pregresse, e per la mancanza di un manuale di uso e manutenzione del genitore. Allora gira la ruota, sperando che si fermi nella casella della risposta corretta.
Ma la ricerca della benevolenza della sorte è un impulso che continua a crescere nella nostra società inquieta e smarrita, allora alla conquista Del quiz partiremo Bisogna vincere E vinceremo…
Raggiunti gli anni della piena maturità anagrafica e professionale, un po’ logorato da tante emozioni per i sogni e le fantasie vinte e perdute nelle scommesse della vita, sedato da ettolitri di gel gastrico, siedi al tavolo della cena condivisa con i vecchi compagni di liceo. Una volta ordinato il menu, ti accorgi che sono esauriti i tre argomenti tipici delle conversazioni maschili, rimpiazzati dal gioco blister da tavolo
senza premi “Quale pastiglia ti hanno prescritto?”
Infine giunge la stagione in cui le care voci si affievoliscono, le luci si attenuano, le case rimangono vive solo di ricordi, che i cuori possono però perpetuare nel tempo, come descritto sublimemente nel capolavoro di Isabel Allende.
Solo coloro che hanno la fortuna della fede trovano risposta ai quiz di questa stagione della memoria, agli altri può accorrere in soccorso la consapevolezza che ogni momento è prezioso e la speranza di viverlo come uno stato di grazia, al meglio delle proprie possibilità, senza pretendere di qualificarsi al
quiz Prendere o Lasciare.
Spero ardentemente che una volta giunto ai cancelli del cielo, non si avveri l’incubo di trovare Pietro travestito da Mike Bongiorno che mi accoglie al grido Allegriaaa e mi mostra il tabellone Rischiatutto, su cui puntare in ordine di difficoltà: Inferno da 10, Purgatorio da 1.000 o Paradiso da 1.000.000.


QUARTIERE

Autrice: Stefania BAMBACE

Quartiere: una comune parola tra le tante dell‘immenso vocabolario italiano. Tuttavia, la mia
memoria selettiva la custodisce con gentilezza e cura in uno dei suoi antri dorati. Come un classico
riposto sullo scaffale della propria libreria che ogni tanto si desidera rileggere, così la parola
quartiere, gelosamente conservata nella caverna delle sacre rimembranze, riaffiora
occasionalmente e torna a raccontare la sua storia. É un quartiere che ha un nome ed una
collocazione geografica precise: Quartiere Santa Rita, Città di Torino. Non importa dove io abbia
abitato nella mia vita, il quartiere é rimasto solo quello e solo una é la storia, suddivisa in vari
capitoli (infanzia, adolescenza, gioventù, ritorni) ed abitata da personaggi e luoghi simbolo.
Sgranando tra le dita le lettere che compongono la parola, una sorta di polvere magica ci si
deposita sopra e mi consente di saltarci dentro, come in un disegno nel film di Mary Poppins. E mi
ritrovo bambina, i capelli corti, gli occhiali e la cartella rossa sulle spalle, mentre cammino
sull‘ampio marciapiede di Via Tripoli ed osservo l‘ordinato avvio di giornata della mia severa città
sabauda. Ho lasciato dietro di me il profumo del pane e delle pizze e focacce sfornate non da
molto nella panetteria situata a pochi metri da casa mia, già affollata di clienti, ed ho lanciato
un‘occhiata golosa ai dolci da forno e le immancabili variopinte cri-cri esposte in vetrina. La latteria
accanto ha già ricevuto il rifornimento del camion della Centrale del Latte. La lattaia, dietro il
bancone, é intenta a recuperare dagli abituali frequentatori del negozio (per lo più signore) i vuoti
di bottiglie di vetro e a vendere il latte fresco di giornata, forse insieme a formaggi, burro,
yogurth…. Anch‘io sto dando inizio alla mia giornata. Mi dirigo infatti, come ogni mattina, verso la
scuola elementare Giuseppe Mazzini. Ho il tempo di fermarmi a salutare, gesto quotidiano
immancabile, il mio amico albero. Un cucciolo di betulla poco più alto di me che cresce dietro la
cancellata degli uffici della SIP, che costeggio ogni mattina mentre vado a scuola. Non sono
ancora consapevole di vivere una delle tappe più importanti della mia esistenza. Nel perimetro di
un‘aula tra i muri di quel vecchio edificio il mio maestro ha creato un‘officina fiorente. Grazie a lui
avrò in mano gli strumenti atti a farmi scoprire il mondo e a scoprire me stessa nel mondo, sarà lui
a darmi i mezzi necessari per muovere i primi passi nel tempio del sapere e riempire di sostanza la
forma del mio nome. Oggi però, mentre varco la soglia del cortile, tutto questo ancora non lo so.
Vivo con spensieratezza ma anche con impegno le attività febbrili della classe, sulle quali vigila la
presenza benedicente della chiesa di S.Rita, il cui campanile sembra un quadro incorniciato nel
telaio di uno dei finestroni dell‘aula. Il Santuario, da cui prende il nome il quartiere, sembra essere
piuttosto il centro di un grande cerchio con tutti i suoi elementi: raggi, segmenti, corde, settori. La
circonferenza di quel cerchio delimita il mio piccolo mondo quotidiano. Al suo esterno si espande la
grande città, che mi si rivela poco alla volta ed in occasioni dal sapore di una gita. Le campane del
Santuario scandiscono il mio tempo, di quarto in quarto, si odono praticamente ovunque fino a
tarda sera. Mi piace la chiesa, con i suoi marmi colorati ed i suoi dipinti che raffigurano rassicuranti
storie del Vangelo dal sapore quasi bucolico e che mi sembra di riconoscere. 
In evidenza, dietro l‘altare, oltre al Crocifisso sovrastato da un Dio Padre con il volto di un dolce
vecchio, si trova l’effigie della Santa a cui la chiesa é dedicata. Mi hanno detto che in virtù di una
fervida preghiera a Santa Rita sono sopravvissuta ad una grave polmonite in età pediatrica. Che
sia anche questo un elemento che mi fa sentire a casa in questo luogo? Sono ancora una bambina
ma conosco perfettamente tutti i negozi del quartiere e la maggior parte dei negozianti conosce
me. É un borgo che dispone di tutto, dai generi di prima necessità per la spesa quotidiana, al
giornalaio, la merceria, i negozi di abbigliamento e di scarpe (come non citare lo storico Bambi,
negozio di scarpe per bambini), i negozi di giocattoli (che rifornimenti al Nano Blu di Corso Agnelli!)
e le cartolerie, dove si può comprare una quantità inimmaginabile di oggetti per la scuola ed il
tempo libero, compresi i libri. Il vivace mercato rionale é frequentato da una folla che a me pare
immensa, nella mia percezione di bambina. I compagni di giochi abitano tutti a pochi isolati da casa mia, é facile incontrarsi. 
E poi c‘é il Comunale. Lo stadio Comunale, il teatro delle imprese
della mia Juve, anche se a domeniche alterne ci gioca anche il rivale Torino.
Amo l‘atmosfera chiassosa che precede le partite, i banchetti di bandiere, magliette, sciarpe ed
oggetti vari in vendita agli angoli delle strade che circondano lo stadio, la sfilata dei tifosi che si
dirigono ai vari ingressi, il rumore dei tamburi già presenti all‘interno. Da casa ascolto la voce dello
stadio, una lingua familiare di cui so riconoscere i diversi significati traducendo ogni boato, come
una radiocronaca riservata a pochi eletti. Sfoglio la pagina che apre al capitolo successivo. La
strada che percorro al mattino é un‘altra, verso un‘altra scuola. L‘umore é quello di un‘adolescente
arrabbiata, la casa, la scuola, il quartiere sono ora una gabbia ostile. La panetteria ha cambiato
gestione, il latte non si vende più in bottiglia, molti negozi non ci sono più, ne sono stati aperti altri.
La SIP ha un altro nome ma il mio amico albero é sempre lì, un po‘ più alto e forse un po‘ più triste
come me. Lo stadio é una certezza, ora vado con le amiche a vedere la mia Juve e torno a casa
senza voce. I quarti d‘ora della mia giornata continuano a essere scanditi dalle campane di Santa
Rita ma ora mi sembrano un lugubre richiamo. Il vento soffia più forte adesso e lascia scorrere le
pagine più velocemente. Sono su un bus sovraffollato, siamo in tanti con le nostre cartelle pesanti
diretti verso le scuole del centro. Il quartiere é il luogo in cui abito ma non é più il testimone delle
mie esperienze significative. Altrove mi trasportano il bus, il tram e poi finalmente la macchina,
rossa come lo era la cartella delle elementari. Via, oltre Piazza d‘Armi, oltre il quartiere, lanciata
verso la città o fuori dalla città. Lanciata infine verso gli anni dell‘Università, e Torino tutta é sempre
più mia. Un angolo del mio quartiere, però, torna a coccolarmi. La Villa Amoretti del Parco Rignon,
la sua biblioteca, il mio territorio di silenzio ed ispirazione per preparare gli esami più impegnativi.
La condivisione della pausa pranzo con altri studenti, su una panchina sotto gli alberi o nelle
fredde giornate d‘inverno al bar antistante, quando la sigaretta aveva ancora il permesso di
accompagnare il caffè e discorsi oscillanti tra il frivolo ed il rivoluzionario. Dissolvenza. Nuovo
capitolo. Gli studi sono terminati, ho lasciato l‘Italia, Torino, Santa Rita e soprattutto la mia casa.
Quando vi faccio ritorno sono mamma. Tutti ritorni puntuali a Natale, a Pasqua, ad ogni manciata
di giorni di ferie. L‘indirizzo é sempre lo stesso: via Baltimora 47/3, piano settimo. Un interno tra via
Tripoli e Corso Orbassano, quartiere Santa Rita. Nelle giornate di sole si vedono le montagne con
le cime innevate, me n’ero mai accorta? Papà e mamma abitano sempre lì, in seguito mamma da
sola. Il senso dei miei ritorni é nelle relazioni tra i nonni ed i nipotini, tra una nuova me ed i suoi
anziani genitori. Torno a camminare per il mio quartiere, faccio il conto di ciò che ancora esiste e di
ciò che non c’é più. Ripercorro con i passi le strade, con la mente il mio quarto di vita trascorso qui.
Mi sento davvero come se fossi saltata dentro un disegno. Cerco di trasferire il mio sguardo negli
occhi dei miei bambini per tramandare loro l‘ eredità di un ricordo, per condividere un‘emozione
che mi scoppia dentro. Con loro scopro che nel mio quartiere esistono bellissime aree giochi ben
attrezzate e che nei pomeriggi dopo le quattro si riempiono di bambini festanti appena usciti da
scuola.  Sono anche i nostri pomeriggi. Li porto ogni giorno a scoprire i miei luoghi, a conoscere il
mio amico albero che fingo possa ricordarsi di me, spiego che lo stadio non é più quello della Juve,
mostro la mia scuola, facciamo acquisti nei negozi in cui ancora mi riconoscono, incontriamo per
strada sempre qualche vecchia conoscenza con cui fermarsi a chiacchierare, facciamo la spesa al
mercato per la nonna e mangiamo per merenda la focaccia che in Germania non esiste. Tutto ciò
che era consuetudine per me bambina é per loro una continua scoperta. A scapito della modernità
incalzante, Santa Rita é ancora un bel quartiere dal volto umano e nel contempo si é rivestito di un
abito nuovo per questo mio attuale quarto di vita. Ad ogni ripartenza provo un‘affannosa urgenza di
portare via con me il più possibile: i libri consigliati dalla libreria di Piazza Montanari, il gusto dei
vestiti, il caffè, i mandaranci del mercato,  Superga in lontananza che mi dà il buongiorno al
mattino dal balcone di casa, le pere caramellate del negozio di gastronomia, l’immagine del mio
amico albero, i grissini sgranocchiati, le campane del Santuario, gli alberi di Corso Orbassano,  le
bignole, il giardino esagonale che separa gli edifici del mio interno, le vie, gli angoli delle strade, la
mia bella casa,  le persone….un delirio che dura il tempo di un viaggio. Poi seguirà una nuova
vacanza ed un nuovo ritorno a respirare il quartiere. Appendice. Sono uscita dal disegno. Non c‘é
più la mia casa in via Baltimora. Non c‘é più chi la abitava. Non ci sono più ritorni. La parola
quartiere e tutto ciò che contiene é di nuovo al suo posto, in un antro dorato della mia memoria
selettiva.

La questua

Autrice: Grazia Berardinelli
La questa è la raccolta di oblazioni che si effettua durante la celebrazione del rito liturgico della Santa Messa a scopo di culto e carità cristiana.
La questua nel Medioevo era effettuata dagli ordini monastici mendicanti che chiedevano l’elemosina soprattutto il cibo per il proprio sostentamento e a favore dei poveri. 
Chi donava si assicurava evangelizzazione e protezione.
Nel mondo antico dai greci ai romani era d’uso il rito della moneta da custodire sotto la lingua del defunto come obolo da pagare a Caronte il traghettatore di anime nell’oltretomba.
Per la tradizione cristiana durante la messa al momento dell’offertorio il prete offre i doni del pane e del vino quindi invita il fedele a elargire i propri doni.
Da piccola mi incuriosiva il sacrestano che passava di banco in banco a chiedere soldi con un sacchettino di stoffa, sostenuto da un bastone. 
Il suo procedere severo con lo sguardo di sfida creava un certo scompiglio e imbarazzo tra gli astanti, soprattutto tra gli impreparati che dovevano ancora decidere sul quanto avrebbero voluto offrire, in alcuni casi sul dove reperirli. 
Tutto intorno era un tintinnio di monete dalle 5 alle 100 lire o fruscio di carte dalle 500 alle mille lire per chi se lo poteva permettere.Nella mia parrocchia, la chiesetta di Santa Nicola nel cuore di Trivento, chi girava tra i banchi era Lucianetta, una giovane adolescente di bassa statura, riconoscibile dall’andatura dondolante. 
Giocare con lei, sebbene fossi più piccola era divertentissimo, era super comica, aveva una risata contagiosa quanto perniciosa per lei, tanto perniciosa che degenerava, se la faceva letteralmente addosso, me ne accorgevo dalla pozza d’acqua che scorreva sotto ai suoi piedi, e giù risate collettive. Lucianetta per evitare ogni rischio, quando faceva la questua, non guardava in faccia nessuno, forse questo era il motivo della sua andatura.
La domenica mattina alla messa delle 9 il rischio per Lucianetta era minore, c’era tutto il quartiere, per fortuna più adulti che bambini, che invece andavano a quella
cantata delle 11 più invitante per via dei dolci che il parroco elargiva loro per accattivarseli.
Intorno ai 15 anni Lucianetta cominciò a stancarsi, si vergognava di fare la questua, la sua andatura coatta ora ancheggiante aveva più lo stile di una modella. Inoltre la paura
di poter ridere incontrando uno sguardo amico le creava ansia. Fu cosi che don Ennio, il vicario del vescovo, parroco arcigno di Santa Nicola, dovette iniziare a cercare un sostituto e chi scelse proprio me. Nonostante la mia risaputa timidezza mi aveva tradito la determinazione e sfrontatezza, a suo dire, allorchè andavo a reclamare la restituzione del pallone che immancabilmente, giocando nella vicina piazzetta con gli amici, finiva nel giardino della chiesetta protetta da un’enorme cancellata di ferro con le punte a freccia che noi bambini non riuscivamo a scavalcare. 
Per riavere il pallone don Ennio ci ricattava con lavori di giardinaggio e servigi vari per la chiesa. Nonostante tutto ci premiava con 10 lire, era poco, ma ci potevamo comprare da zi Ming10 biscotti sfusi a forma di animali da scegliere in un enorme cassetto di legno.
Cosi mi ritrovai a fare la questuante e sull’esempio di Lucianetta passavo tra i banchi della chiesetta, tenendo lo sguardo basso, al massimo di sbieco per orientarmi nei
movimenti, sfuggendo gli sguardi. 
Col tempo imparai a riconoscere il valore delle oblazioni dal tintinnio delle monete o dal semplice fruscio delle banconate e conoscere la disponibilità dei fedeli. 
A fine raccolta il peso del sacchetto mi dava gioia al pensiero che il burbero don Ennio avrebbe avuto abbastanza denaro per le spese parrocchiali e soprattutto per aiutare i poveri. 
A quei tempi nei paesi la povertà era poco evidente, mi chiedevo sempre dove fossero tutti i poveri di cui parlava nelle omelie. Ma forse alludeva ad altro tipo di povertà, ricordo però che mio nonno paterno, proprietario terriero, mi mandava ogni tanto a portare olio, latte, uova e pane ad alcuni vecchietti che vivevano in case brutte e fredde. Nei paesi di allora la carità e l’aiuto reciproco erano valori connaturati nell’intimo di ciascuno e in molti la facevano anche perché timorati di Dio.
Oggi volendo perorare cause no profit si rischia di essere accusati di fare questua con accezione negativa.

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