Lettera P - Giuseppe - Stefania - Mia

Giuseppe BAMBACE 

Data: 07-12-2023

Conosco l’uomo, in senso filosofico intendo, la sua natura nel confronto coi suoi simili e col mondo che vive intorno a lui, o meglio nonostante lui. Mi confida i suoi sentimenti più reconditi, le passioni e la malinconia, le gioie e le lacrime.

Primavera

Ricordo una giornata limpida di primavera, puntuale come sempre mi venne incontro un vecchio dal volto gentile, camminando aiutandosi col bastone e tenendo in mano un piccolo sacchetto di stoffa. Non proferì parola nel vedermi, il suo sguardo vivido scrutava in mezzo all’erba e sugli alberi circostanti. Mostrava l’impazienza di chi attende un caro amico, si muoveva con gesti misurati, mormorava qualche parola sommessa che echeggiava nel silenzio umido di rugiada del mattino appena nato. D’improvviso batté ritmicamente alcuni colpi di bastone sullo steccato di legno e rimase in ascolto, dopo qualche istante la sua attesa venne premiata ed una creatura dagli occhi curiosi ma attenti, la coda lunga e lanosa emerse da un cespuglio e avanzò rapidamente, come se già conoscesse la natura del loro incontro.

Gli occhi del vecchio si illuminarono alla vista dell’amico, sembravano luccicare contro il sole che faceva capolino tra i rami dei tigli pieni di gemme. Tradì l’emozione quando posò il bastone ed aprì il sacchetto con mani incerte, per estrarre poche arachidi e noci, si piegò in avanti e le lanciò al piccolo scoiattolo, che svelto afferrò il suo dono e subito lo nascose tra le guance paffute.

Il vecchio rimase qualche istante a guardarlo mentre si arrampicava rapidamente sull’albero più vicino, quindi riprese una posa eretta e indugiò col sacchetto, voltandosi alla ricerca di nuovi amici lanosi, che potessero donargli ancora qualche attimo di serenità.


Estate

Da qualche anno l’estate arriva senza preavviso, accecante e torrida, mentre il prato assetato ingiallisce precocemente, lasciando il posto ad uno strato sabbioso, che turbina in nuvole di polvere ogniqualvolta viene sferzato dal vento impetuoso di agosto.

Nei pomeriggi afosi, in cui il sole martella l’asfalto e l’aria sembra farsi quasi solida, la città svuotata dalle vacanze intelligenti, un gruppo di anziani percorre il viale proprio di fronte a me con respiro affannato. Vedo gli uomini raggiungere un gazebo all’ombra della folta chioma di un faggio, aprire tavolini e sedie ripiegate alla rinfusa, apparecchiando il tempo coi loro giochi di carte, mentre le donne siedono in disparte scegliendo la mia compagnia e mi dilettano con la loro arte innata della conversazione, su temi di vita quotidiana o aggiornandomi sugli ultimi pettegolezzi che circolano nel quartiere. Il loro vociare tradisce una moltitudine di accenti mediterranei, di paesi che non rivedono da anni, ma che rimangono scolpiti nei loro cuori.

Quando il sole giunge al tramonto, concedendo una tregua al caldo asfissiante, la comunità del pettegolezzo riprende il sentiero di casa, a “cunzari” la tavola per cena, mentre la tribù della briscola si trattiene per l’ultima mano, perché l’asso di spade non è ancora uscito.

Nonostante i litigi e le accuse sulla giocata decisiva non sfruttata da una parte e gli incidenti diplomatici sull’ultima novità scandalistica dall’altra, sono certo di ritrovarli tutti qui domani, alla stessa ora, in cui ripeteranno il loro rituale, per sfuggire ai loro appartamenti infuocati e per rompere l’assedio della solitudine.


Autunno

L’autunno si presenta vivace con la sua tavolozza di sfumature di giallo e di rosso, le mattine sono fresche delle prime brume che umettano di rugiada il tappeto di foglie. I bambini all’uscita da scuola mi riconoscono e mi affidano i loro zaini, per correre al tavolo della merenda, che mamme premurose hanno preparato sull’erba vicino al mio posto, uno spicchio sottile su cui il sole resiste ancora, facendosi largo tra i tetti dei palazzi.

L’aria si riempie dei loro schiamazzi e risa, qualcuno piange a dirotto dopo essere ruzzolato a terra, scivolando sulle foglie bagnate. Poco distante osservo i cani trascinare i loro padroni tra cespugli e aiuole, attirati dagli odori intensi e irresistibili della stagione. Gli uccelli si contendono gli avanzi della merenda, a volte in modo sfacciato planando tra i tavoli. Le mamme raccolgono cappellini e guanti dispersi nell’erba per concedersi un momento conviviale. Le ascolto esaltare i successi scolastici dei propri figli e le loro prodezze sportive, mentre sorvolano puntualmente sui loro naturali fallimenti, malgrado essi siano un pegno inevitabile della loro giovane esistenza. Come ad un segnale convenuto, tutto si conclude rapidamente e ciascuna raduna i propri rampolli. Restituisco loro gli zaini, perché incombono il corso di nuoto, karate, lingua cinese, calcio, danza e tanti altri pacchetti ben confezionati. I più pigri esultano entusiasti al pensiero di giungere a casa in fretta ad accendere la play station.


Inverno

Il vento gelido del nord preannunciava l’arrivo dell’inverno. Un tempo avvertivo i fiocchi di neve addosso, li vedevo ricoprire gli alberi spogli ed il prato ormai brullo. Tutto intorno a me la natura rallentava il suo respiro, con la sua veste ovattata mascherava i suoni fastidiosi della città, mentre lo scricchiolio dei passi dei visitatori aveva un timbro quasi musicale. Il buio cala troppo presto intorno al solstizio d’inverno e persino le luci dei lampioni sembrano fioche, quasi cercassero riparo all’interno delle loro lanterne di vetro.

In questa atmosfera onirica il gelo sembrava cristallizzare perfino il tempo. Accadde così che una sera magica si sprigionasse in lontananza un bagliore caldo e luminoso. Ad una osservazione attenta, apparve evidente che non si trattasse di una luce reale, ma di un’aura potente che cangiava di continuo di intensità e colore. Proveniva da un angolo appartato, dove due giovani sussurravano parole, si scambiavano tenerezze, incuranti del freddo pungente e dei passanti curiosi. In quel momento i loro esseri erano gli unici abitanti del pianeta. Era l’aura dell’amore, promessa di futuro del mondo, nonostante tutto.

Conosco l’uomo, i suoi segreti più intimi, le passioni e le delusioni.

Sono la panchina del parco, quella sotto il lampione, vicino al viale alberato.


PAROLE, PAROLE

di Stefania Bambace

ll manto di neve che ricopre il giardino davanti alla finestra amplifica la voce del silenzio della sera. Ho terminato le mie occupazioni, anche le più banali, l‘ultimo romanzo che fino a ieri era l‘argomento perfetto per procrastinare la veglia è terminato, è tardi per sceglierne un altro da incominciare, avverto una certa stanchezza. La famiglia già dorme, spengo la luce del soggiorno, mi dirigo verso la camera e mi metto a letto anch‘io. Domattina scriverò il racconto per il laboratorio del giovedì, penso tra me e lo sbadiglio che mi coglie prima di cedere definitivamente al sonno. Improvvisamente, però, sento una musica, delle voci. Mi alzo e mi precipito fuori sul balcone: incredibile, è già giorno! Mi preparo dunque frettolosamente, con i gesti consueti di ogni mattina ma stamane un po’ più nervosi, più rapidi, per avviare la mia giornata. Sono già usciti tutti, non mi hanno svegliata. Ah già, il racconto…prenderò prima una boccata d‘aria, forse là fuori incontrerò una musa ispiratrice. Esco. Decido di vagare senza una meta precisa e mi espando nel flusso dei miei pensieri. Forse mi sono persa. Dinanzi a me compare un enorme edificio mai visto prima, un palazzo antico, anzi una vera fortezza, su cui si staglia un vessillo: un’asta lunga e dritta, una forma panciuta protesa verso destra. Non ci sono dubbi, è una grande P. Spinta da una curiosità irrefrenabile mi avvicino alla fortezza, l‘ingresso è stranamente accessibile senza ostacolo alcuno. Una grande insegna sul portone mi fornisce la risposta che sto cercando: sono giunta all’ imponente palazzo del vocabolario italiano! All‘interno un via vai impressionante di figure personificate ed un trambusto assordante di voci che si sovrappongono mi lasciano quasi sprofondare nel mio stupore. Qualcuno mi grida che oggi è la festa della lettera P e di tutte le parole che con essa cominciano. 

Resto in ascolto di quel grande vociare e mi sforzo di interpretarne i significati. Assisto al delizioso spettacolo danzante di parole preziose, pulite, pacate, pacifiche, potenti. Scopro così che ogni parola ha una voce. Una storia da raccontare. Una sua indipendenza ed una sua vita. I grandi scrittori, eccelsi giocolieri di parole, ce lo dimostrano da secoli. Creano relazioni costruttive tra le parole dando vita a suoni e immagini, analogie e riflessioni, significati e sogni che nel loro intersecarsi producono letteratura, nutrono il pensiero. Sanno invece, le parole, di essere divenute un orpello per il genere umano, ingrato ed incapace di farne buon uso, di maneggiarle con cura. Sono consapevoli di essere abusate, utilizzate troppo spesso per ferire e sempre meno per accarezzare, o frequentemente ignorate, tanto da rischiare l’estinzione. 

Istintivamente ripenso ad una frase estrapolata da un film di Nanni Moretti: chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste, le parole sono importanti. La mia riflessione si interrompe bruscamente quando viene srotolato un lunghissimo tappeto rosso sul quale, nella loro versione scritta, sono state incastonate le parole in onore della lettera P. Il mio sguardo cade inevitabilmente sulle mie…PREFERITE. Il PALCOSCENICO sul quale va in scena il teatro dell‘esistenza, il PAESAGGIO che si esprime in una lingua propria, il PANE, simbolo per eccellenza di semplicità e nutrimento prezioso vergognosamente sprecato o tragicamente (e altrettanto vergognosamente) mancante. La PASSIONE, elemento imprescindibile di tutto ciò che governa la mia esistenza. Passo velocemente oltre la parola PATRIA, che mi lascia sempre un retrogusto amaro e getto un‘occhiata carica di orrore sulla parola POSSESSO. Relegata in un angolo di tessuto, PERMESSO non la usa quasi più nessuno.

Ed ecco invece PIACERE, il cui ruolo preponderante in italiano è stato già oggetto di lunghe dissertazioni da parte mia, docente alternativa. Mi soffermo su PITTURA e su POESIA che, da sole, meriterebbero un trattato e PROSA che ne è sorella. Mentre credo di aver toccato le parole più importanti, ecco che al centro del tappeto, a caratteri cubitali e riccamente decorata, è messa in evidenza la parola PERCHÉ, ahimè accompagnata da un grosso punto interrogativo che non lascia spazio ad un perché esplicativo, molto piccolo ed in posizione marginale. Come mi piacerebbe un PERCHÉ seguito da un PUNTO, magari un bel PUNTO esclamativo! D’altra parte, però, che ne sarebbe del fascino di questa vita POTENTE che è continua ricerca di senso attraverso le domande? Mi specchio in POZZO ed anche in PROFONDITÀ, custode delle verità non tangibili, e vago tra le divertenti PIMPANTE e PIZZICARE. Mi arresto davanti a PROBLEMA ed alla sua complessità, con quella finale in A così femminile ed invece un genere maschile (e magicamente nella sua pluralità tutto maschile). Trovo grazia e conforto nella PRIMAVERA ma provo subito sgomento davanti a POLITICA, svuotata tristemente del suo significato originario ed ora ridotta a mera antagonista di PULIZIA e apparentata ad un‘ambivalente POLIZIA. Guardo con tenerezza la parola PROTESTA, mia grande compagna di viaggio ancora dalla voce tonante. La PORTA, come piace a me, è aperta e lascia intravedere un PONTE. Quella parola che ho tanto amato perché sa di incontro, sa di PACE e permette il PASSAGGIO verso un altrove tutto da scoprire (un luogo, un‘esperienza, una PERSONA) ma che ora suscita in me il richiamo funesto di un‘opera mostruosa, pericolosissima ed insensata: quel maledetto ponte sullo Stretto di Messina. Il MIO Stretto, il luogo dei miei avi, l‘origine dei venti e delle correnti che abitano la mia anima, un luogo baciato dalla Natura e dal mito, verrebbe irrimediabilmente danneggiato per gli squallidi interessi criminali di un orribile individuo dall‘ego fuori controllo. Uno sperpero di denaro, inoltre, che grida vendetta nei confronti di sanità, scuola, infrastrutture fatiscenti, e molto altro ancora. Intanto, nel mio accalorarmi avevo perso di vista un PARTICOLARE (parola così ampia che non andrebbe mai trascurata).

Al centro dell‘immensa sala, un trono in posizione rialzata ospita la figura della regina del vocabolario: Sua Maestà LA PAROLA. Mi avvicino timidamente. É una figura pallida, triste, mormora una filastrocca come fosse una PREGHIERA! La riconosco! Sono i versi di Gianni Rodari, LE PAROLE: “Abbiamo parole per vendere, parole per comprare, parole per fare parole ma ci servono parole per pensare “.Mentre ritorno mentalmente ai giorni dell‘infanzia in cui ho letto e recitato con entusiasmo questa poesia, noto sulle labbra della regina una smorfia di dolore che si accentua al verso “ma ci servono parole per amare “. É però nel sillabare i versi conclusivi che una grande lacrima scende a rigarle il volto: “abbiamo parole per fare rumore, parole per parlare non ne abbiamo più “.In uno slancio di empatia vorrei correre ad abbracciare la Regina ed il suo dolore, che sento un po‘ anche mio. Invece avverto una mano appoggiata sulla spalla che delicatamente mi scuote e mentre la luce sembra affievolirsi una voce mi dice dolcemente: “Tesoro, non hai sentito la sveglia. Ti ho preparato il caffè, vieni, ti aiuto ad alzarti “. Ed ancora un po‘ stordita, PENSO che a volte anche i piccoli gesti parlano. Più delle parole.

Palazzo   

Mia

Mi avete dato la P, la P di Piemonte ma puo anche essere la P DI PALAZZO, o perfino di Pappagallo. Da bambina e da giovanetta il Piemonte rappresentava per me la casa dei nonni, le vacanze di Pasqua, le passeggiate in montagna con la cara Rina che ci accompagnava.

Ho ritrovato ora una storia di quel tempo che ho voglia di raccontarvi e si chiamerà “IL GIARDINO DI PALAZZO MADAMA”. Il racconto è in prima persona scritto da una ragazza, Isabella, di 16 o 17 anni, che sa scrivere per esser stata educata dai frati predicatori domenicani. Il padre è giardiniere, la madre lavora come cuoca nel palazzo. La loro casa, fuori città, ha camino e una finestra con vetro.

Siamo alla fine dell’inverno. Ci sono lavori di ingrandimento del palazzo e di creazione del giardino. Lavorano vari giardinieri, fra cui il padre. Isabella, sapendo scrivere, è incaricata di segnare le suddivisioni del giardino.

Scrive i nomi delle piante su pezzi di coccio, o su mattoni. Fra le mura vicino al castello, si organizza lo spazio dell’Orto (hortus) e del Giardino del Principe (iardinum domini). Fuori dalle mura si trova il Bosco e Frutteto (viridarium). 

Nell’Orto si coltiva quello che serve per la cucina: lattuga, indivia, sedano e finocchi, carote, cavoli, zucca, cipolle, fave e piselli; erbe medicinali, e alcune piante da frutta come peri e meli. Separato dall’orto per mezzo di una siepe, nel Giardino del principe si coltivano erbe aromatiche, lavanda, salvia e maggiorana; ci sono sedili, una pergola, e anche la gabbia di pappagalli della principessa.

Il Viridarium è fuori città. Vi si coltivano piante da frutta, ciliegi, prugne, castagni. Lì c’è il pollaio, la porcilaia, la colombaia; e una parte del terreno è dedicata alla vigna per il vino della mensa del castello.

Con l’arrivo della primavera aumenta il lavoro con piantagioni, talee e semine. Isabella aiuta nella costruzione della fontana e comincia l’amicizia con il giovane Anselmo.

Isabella accompagna la principessa Bona nel giardino. Accudisce ai pappagalli, e legge alla principessa le storie del paese scritte su vecchie pergamene. Una delle storie è quella del drago con il toro. La legge forte, e il pappagallo ripete “Drago, Drago”.

Una mattina la madre di Isabella va, come sempre, all’orto a raccogliere le verdure per la mensa. Le foglie dell’insalata son state mangiate e morsicate, sedano e finocchi sono rotti, la terra attorno alle carote e alle cipolle è stata rimossa. Questo si ripete giorno a giorno per tutte le piante, e specialmente per le erbe medicinali e aromatiche: arnica, menta, salvia e lavanda. Nel palazzo tutti ne parlano, ma nessuno ha visto persone estranee o animali aggirarsi per l’orto. Il pappagallo grida Drago Drago. 

Isabella e Anselmo decidono rimanere una notte nel giardino. Si nascondono sotto una panca. Passata la mezza notte sentono un rumore sordo, come di tuono lontano, dalla parte della campagna. Escono dal loro nascondiglio e si alzano in piedi sulla panca. Nel chiarore della luna vedono una figura oscura che traversa la porta Fibellone che da passaggio fra campagna e città. Il pappagallo gracchia Drago Drago.

Con il levar del sole, Anselmo con un sacco a spalla prende il cammino verso la montagna. Cammina tutto il giorno, arriva a un paese nella valle dove passa la notte. Si sveglia all’alba e cammina per un sentiero in salita fino a un pascolo erboso quasi alla cima del monte, dove corre un piccolo ruscello. Attorno alla sorgente crescono gruppi di fiori viola in forma di spiga, alti e appariscenti. Anselmo li taglia dal gambo con il suo coltello senza toccare i fiori, facendo un grosso mazzo di Aconito Napello che mette immediatamente nel sacco.

Prima del calar del sole, Anselmo è di ritorno al giardino del palazzo, dove Isabella lo aspetta. E’ notte: giardinieri, cuoca, guardiani e i signori del castello, tutti già stanno dormendo. Tutti meno Isabella e Anselmo che, con il sacco dei fiori, si dirigono alla porta Fibellone. Poco prima che scocchi la mezzanotte, dispongono i fiori in bella vista – ma senza toccarli - all’entrata della porta.

Da quel giorno le piante del giardino ripresero a crescere esuberanti. Il pappagallo continuò a vivere tranquillamente nel giardino, ma non gridò più Drago Drago. I fiori viola che Anselmo aveva raccolto erano di Acconito Napello, pianta velenosa come poche. Il Drago li aveva assaggiati ed era morto.



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