Lettera O - Giuseppe - Stefania - Gabriella

 ORNITORINCO          Giuseppe Bambace

Mi ha intrigato il tema della comunicazione non violenta, che è stato illustrato qualche tempo fa in una delle nostre conversazioni creative, come amo chiamare il nostro laboratorio di scrittura.

In particolare mi aveva incuriosito la narrazione del linguaggio giraffa, richiamo del libro di Marshal Rosemberg, perché riportava il sottotitolo “una comunicazione legata alla vita”.

Perciò mi sono messo in cammino verso la mia libreria preferita dove, come ho già detto in un racconto precedente, amo respirare l’aroma accogliente di cellulosa misto a inchiostro da stampa, ed ho acquistato il libro, per approfondire l’argomento, che presagiva alcune risposte ai quesiti fondamentali sulle relazioni sociali e sul dialogo interiore.

Ho appreso come allenare l’attenzione alle richieste ed ai bisogni dell’interlocutore, simboleggiate nel linguaggio giraffa, l’animale terrestre col cuore più grande, in contrapposizione all’approccio utilitaristico, ripiegato su sé stesso e sui propri obiettivi, identificato col linguaggio sciacallo.

Mi sono interrogato su quale dei due modelli fosse il mandala, lo strumento di ispirazione per una dialettica costruttiva. Per usare un’espressione pletorica, mi sono calato nelle nebbie della desolazione della mia anima e dopo feroce analisi critica, sono giunto alla conclusione di essere un tifoso accanito dell’ornitorinco.

Mi spiego, a scanso di equivoci o di facili ironie.

Se la giraffa è simbolo di apertura mentale per via del suo grande cuore e lo sciacallo rappresenta l’esaltazione dell’ego a causa del suo carattere opportunista aiutato da denti aguzzi, quale mirabile biodiversità di emozioni e di atteggiamenti manifesta un animale che sembra costruito con parti di altri animali assemblate insieme apparentemente a caso.

Ha i piedi palmati, la coda da castoro, il becco come un'anatra e il pelo come una lontra. Ancora più misterioso, caso unico nel regno animale, è un mammifero, ma depone le uova, allatta i suoi cuccioli, ma non ha i capezzoli.

Aggiungiamo che la commistione delle sue caratteristiche somatiche sottende la domanda esistenziale tuttora senza risposta sul luogo d’origine dei suoi progenitori, ed otteniamo l’unico animale che racchiude in sé tutte le pulsioni, le reazioni, l’approccio nella dialettica con l’altro. Un vero rompicapo anche per i fanatici dei corsi di analisi transazionale.

Ci si attenderebbe che le sue specializzazioni per così dire cosmopolite ne potessero favorire la comunicazione legata alla vita circostante, premiandone la diffusione, rispetto a specie che adottano strategie conservative oppure che si limitano ad atteggiamenti speculativi, barattati con uno stato di perenne sudditanza nei confronti di altri individui dominanti. Invece la sua libertà espressiva, anziché garantirgli il successo, ne ha relegato la presenza in un unico continente, restringendo la sua rubrica a pochi selezionati contatti. L’ingordigia dei dominatori del pianeta sta ulteriormente restringendo la sua capacità espansiva, frapponendo ostacoli, imponendo logiche distruttive, che esercitano grave impatto sulle condizioni del suo areale, come la deforestazione e la costruzione di nuove dighe, che provocano la scarsità d’acqua.

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Tempi difficili per l’ornitorinco che avverte la stanchezza dell’intelligenza astratta, un peso della coscienza del mondo, un non poter respirare con l’anima, per citare Fernando Pessoa. Voglio pensare che il nostro protagonista ce la faccia, avvalendosi delle sue virtù cosmopolite, parlando il linguaggio dell’anatra, del castoro, della lontra, arricchendo il proprio lessico con quello della giraffa ma anche dello sciacallo. Forse più solitario, ma consapevole delle proprie qualità e dei propri limiti, che accetta senza remore, perché costituiscono le fondamenta robuste, argute, a volte spigolose, spesso silenziose, della sua resistenza ad oltranza nel viaggio della vita.


OMBRA      Stefania Bambace

Le foto dei Numi protettori della mia casa si dividono lo spazio tra i ripiani del soggiorno ed il comodino della stanza da letto. Proprio accanto al mio cuscino, rivolta verso di me a custodire il mio sonno (e le ombre della notte) un‘immagine dai colori ormai sbiaditi ritrae un uomo ed una bambina. 

La bimba non avrà ancora due anni, piccolina ed impacciata nella sua andatura, come si evince dalla posizione lievemente goffa dei piedini, chiusi in eleganti scarpette bianche e calzine ricamate che, nella loro raffinatezza, sembrano costringerli fino a rivendicare e reclamare il loro diritto alla libera nudità. Non meno elegante é il vestitino blu che l‘avvolge, impreziosito da minuscole applicazioni di color bianco lavorate sul davanti. In testa un grazioso foulard in miniatura, anch’esso bianco. La manina stringe la mano forte e decisa dell‘uomo che decide il ritmo ed il passo di quella camminata. 

Elegantissimo, postura fiera, la mano destra per metà lasciata scivolare nella tasca del pantalone, un sorriso quasi riservato ed occhiali da sole che lasciano tuttavia indovinare uno sguardo dritto innanzi a sé. La bambina invece rivolge gli occhi verso il basso. Sembra attenta e concentrata nell’analizzare e misurare le ombre che la sua minuscola figura e quella gigante del padre proiettano sull‘asfalto di un marciapiede di Corso Agnelli nella Torino di fine anni Sessanta. Una probabile passeggiata domenicale nel sole di primavera. 

Le ombre sono per la bambina l‘aspetto più interessante di quel momento immortalato per sempre. L‘ombra di un passo praticamente irraggiungibile da quei pochi centimetri di ombra accanto.  Una sproporzione di dimensioni che però non delinea una linea di confine netta, tanto che i contorni delle due ombre appaiono l‘uno come l‘appendice dell‘altro e le due ombre quasi confluiscono. Un senso di stupore e di fascinazione é ciò che si legge in quei grandi occhi scuri rivolti verso il basso. Restare al passo, inseguire l‘ombra. Quasi il motto o il monito di una vita. 

OMBRA, però, é in fondo solo una parola, un contenitore vuoto che ciascuno di noi può riempire conferendole il senso che più gli aggrada. L‘esistenza umana si può facilmente riassumere in un dinamico gioco di luci ed ombre che si alternano, convivono, si sovrappongono ma a determinare la qualità di questi due elementi sta a noi. 

Personalmente non riesco ad attribuire alla parola OMBRA un‘accezione negativa. L‘ombra di quel grande passo é la prima di cui ho memoria, ed é innegabile che mi abbia avvolta, proiettandosi su di me. Era protezione, esempio, indicava una direzione certa. Poi, si sa, le ombre cambiano a seconda delle varie parti del giorno e delle diverse stagioni. A mano a mano aumentano, si accorciano, si allungano, disegnano profili imprecisi, a volte indecifrabili. Ed è così che, inseguendo l‘ombra, mi sono ritrovata non propriamente “in una selva oscura “come Dante, ma certamente smarrita tra le mille facce di questo simbolo fortemente polivalente. 

Quando il passo incerto della prima infanzia si é trasformato in un deciso passo di corsa, le ombre da inseguire avevano forme gigantesche, ideali via via divenuti illusioni: “inseguendo l‘ombra, il tempo invecchia in fretta “. Così recita un frammento presocratico attribuito a Krizia, riutilizzato da Antonio Tabucchi per il titolo di una sua splendida raccolta di racconti. Occorreva orientarsi diversamente nel labirinto di ombre, nella galleria di specchi in cui rischiavo di consumare il mio tempo. Cambiare passo, andare oltre, trovare l’uscita. 

Gradatamente le ombre più minacciose ed inquietanti subivano uno spostamento dall‘esterno verso l‘interno. Assumevano l‘identità di pensieri cupi, trovavano spazio nella caverna dell‘anima, erano le parti del sé che reclamavano faticosamente di venire alla luce. Tutti noi siamo anche quelle zone d‘ombra che non vogliamo riconoscere. Disconoscerle, tuttavia, ci impedisce di trovare il nostro passo, di determinare la nostra direzione. Di sabotare la verità di noi stessi. Il finale della fiaba che apre la raccolta Fiabe italiane di Italo Calvino é un gioiellino illuminante, a questo proposito, e ci consente un sorriso. Giovannin senza paura é l’eroe che supera coraggiosamente tutte le prove perché non ha paura di nulla, tantomeno della morte, e finisce ricco sfondato a vivere in un sontuoso palazzo. Finché, narra l’epilogo della storia…. 

Finché un giorno non gli successe che, voltandosi, vide la sua ombra e se ne spaventò tanto che morì.

Io misuravo (e forse ancora continuo a misurare) le dimensioni della mia ombra. Soprattutto, però, tentavo di comprenderne la forma, di disegnarla perché fosse riconoscibile e non una mera sagoma confusa. Come allora, in quello scatto che profuma d‘antico, perché l‘ombra del gigante é scomparsa dalla vista ma con una connotazione diversa si é impressa nel sacro antro del cuore. 

Lo sforzo successivo era quello di dare un nome alle ombre fuori e dentro di me, come nel gioco delle ombre cinesi. Tutto questo lavoro non ha mai offuscato la mia predilezione per il significato positivo del termine ombra, avvalorato dall‘osservazione e dall‘esperienza diretta di quel grande dono che sono i nostri amici alberi. La frescura, il riparo, il ristoro che la loro ombra ci offre, in particolare su terreni aridi e assolati. Che siano reali o metaforici. 

Un‘ombra che consente un flusso di energia, rinvigorisce, consola e riconcilia con il mondo, a dispetto delle sue tante ombre fredde ed orride. Ora che il mio passo é malato apprezzo in modo particolare il sostare, più che l‘andare. Sostare all‘ombra di un albero ed assaporarne il senso di protezione, la smisurata grandezza. Non so perché, ma la sensazione ne rievoca una simile, immortalata in uno scatto fotografico di tanti, tanti anni fa.


ODORI ODORATO OLFATTO    Gabriella

Tra i sensi, l'olfatto per alcune persone riesce a suscitare le emozioni più forti.

In effetti capita spesso di ricordare con la mente degli odori dell'infanzia o di un viaggio o di altro. Vi sono odori o profumi che restano immagazzinati nel cervello per anni, pronti a “resuscitare” in modo improvviso quando meno ci si aspetta. La sensazione che si prova è di una dolce ed inattesa nostalgia. Gli odori gradevoli e sgradevoli sono strumenti di approccio con la realtà: ci serviamo dell'odorato anche per orientarci, proprio come fanno gli animali.

Ricordi di odori...

Quando sento l' odore di vaniglia mi ritorna in mente il tempo in cui mia mamma preparava per me i budini della Elah e in cucina aleggiava questo profumo intenso.

Durante una gita scolastica in agriturismo, prima di entrare nella stalla, il nostro accompagnatore aveva consigliato di fare alcune respirazioni intense per assuefarci all'odore forte tipico di quel luogo.

A volte camminando per strada, colgo odori caratteristici e mi immagino il genere del negozio che ho di fianco. Spesso anche senza vederlo si può intuire il tipo di merce che vi si trova. Per esempio il profumo di pane davanti ad un fornaio; il profumo di cartoleria o di ristorante o di salumeria.

Per tanti anni ho percepito l'odore di pelle della mia cartella delle elementari, che mi piaceva tanto: ne andavo matta. Dopo le scuole l'ho sempre conservata e utilizzata per archiviare documenti. Dopo decenni ha perso il suo caratteristico odore ma ci sono rimasta affezionata.

“L'odore subito ti dice senza sbagli quel che ti serve di sapere, non ci sono parole, né notizie più precise di quelle che riceve il naso.” (Italo Calvino)

“Senza la partecipazione dell'olfatto, non esiste una degustazione completa.” (Anthelme Brillat-Savarin, politico e gastronomo francese)

“I cani hanno bisogno di annusare il terreno: è il loro modo di tenersi aggiornati sui fatti d'attualità. Il terreno è un gigantesco giornale per cani, contenente tutti i tipi di notizie canine dell'ultima ora, che, se sono particolarmente urgenti, proseguono nel terreno successivo”. (Dave Barry)

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