Lettera R di Stefania: Raccontami e di Giuseppe: Radio Libera

 Raccontami  

di Stefania Bambace  26 ottobre 2023

Raccontami una fiaba, che culli i miei sogni e mi insegni lo stupore e la meraviglia, raccontami un aneddoto che sigilli per sempre sul mio volto un sorriso, raccontami una parabola che illumini il senso del mio essere al mondo, raccontami comunque una storia, che mi parlerà del reale, perché la tua voce la farà esistere, resistere al tempo e quindi ri-esistere, perché, impressa in me, da me sarà perpetrata e andrà oltre me, non conoscerà l’oblìo e diventerà eterna. 
Il racconto circoscrive un mondo e lo fissa per sempre. In particolare noi italiani abbiamo una tradizionale predilezione per il racconto. É la misura breve la cifra della nostra letteratura, noi non nasciamo grandi romanzieri come gli inglesi o i russi, siamo gli inventori del sonetto e della novella. I Troubadours italiani si chiamano non a caso CANTASTORIE, una tradizione orale che ha nella voce il suo veicolo d‘informazione. Siamo i discendenti del mito, a noi sono ben noti quei raccontini che, attraverso la strategia del fantastico, sono la rappresentazione e l’incarnazione della nostra umanità, caratteristiche che ci definiscono ancora oggi come nel mondo antico. Veniamo dalle favole di Esopo, ammonimenti dei nostri vizi e descrizione delle nostre virtù. Siamo i figli di contadini e di pescatori che, nonostante le comparse di immaginari re e regine, popolano da protagonisti il mondo delle fiabe. Un grande patrimonio culturale che ci accomuna tutti, in quanto le fiabe sono, nella loro impalcatura, sempre le stesse in tutto il mondo, pur variando nell’ambientazione e nei registri linguistici adottati. (In questo ambito occorrerebbe una dissertazione a parte). 
Immensa  é la potenza della parola tramandata! 
Che dire della Bibbia, il libro dei libri, diviso in capitoli che altro non sono che una serie di storie, che noi conosciamo più per averle sentite raccontare che per averle lette, e che ci confermano quanto l‘umanità sia sempre uguale a sé stessa. Al suo uditorio preferito, la povera gente, Gesù parlava per parabole, storie che catalizzavano l’attenzione e in cui era facile riconoscersi, perché raccontavano la realtà, dunque vere, e che dopo duemila anni tutti noi, credenti e non, ricordiamo non foss’altro che per la frequenza con cui le abbiamo sentite. La letteratura scritta, in ogni sua espressione, ferma la parola sulla pagina e ce la restituisce anche dopo secoli confermandone il valore universale. É l‘alternativa in caratteri alla parola orale, il pentagramma che riproduce il detto, ora fissato sulla carta. Non importa il come, l’importante é raccontare. 
Raccontare é di vitale importanza, e sottolineo vitale: perché non solo mantiene in vita ciò che trasmette ma lo porta alla luce, dunque alla vita, lo fa nascere di nuovo in quello stupendo passaggio di nutrimento, quello scambio di linfa tra chi parla e chi ascolta, chi scrive e chi legge. 
E allora raccontami, non smettere mai di raccontare. Raccontami l‘ira funesta del pelide Achille, e di Ulisse, giunto in Patria dopo 20 anni come esule e mendicante, riconosciuto soltanto dal suo cane, ma precedentemente approdato in terra straniera e qui invece accolto e curato da un popolo che lo supplica: “Racconta!“. 
Raccontami ogni gemma preziosa delle letterature di tutto il mondo, che io abbia gli strumenti per restare in ascolto di ciò che ancora parla, canta, suona nei teatri, ai concerti, nelle sale e nei musei, nelle scuole o alla luce di una lampada solitaria. Raccontami le storie di quei grandi, dei loro onori e dei loro supplizi. 
Raccontami la Storia, con la S maiuscola, che ormai si studia poco e male, perché io non diventi complice degli errori (ed orrori) reiterati e dell‘indifferenza del mondo. Raccontami ciò che la storia dei vincitori non racconta. Tu racconti ed io ricordo. Il bianco e nero della TV, tra il mago Zurlì e gli sceneggiati tratti dai grandi romanzi, e l‘altro bianco e nero, “storia di un grande amore”, “storia di quel che sarò“, ben oltre il mero gioco del calcio, un immenso bandierone cucito da mamma che ci avvolge tutti nei nostri ricordi di infanzia, adolescenza, giovinezza ed età adulta. E diversamente adulta. Un tatuaggio sul cuore. 
Tu racconti ed io ricordo. I negozietti del quartiere come piccole certezze di un mondo scomparso, le vacanze lunghe ed i viaggi infiniti per raggiungere la meta, i volti e le voci di chi é entrato a far parte di me e da me non se n’é andato più, i giochi all‘aperto fatti di fantasia, le sere d‘inverno correndo su e giù lungo il perimetro della mia cameretta ad inventare storie ad alta voce, magari in improbabili lingue straniere. Raccontami cosa c’era oltre la mia finestra che ti faceva tanta paura, le piazze piene di diritti da rivendicare e le prime bombe, le sparatorie che non dicevano nulla se non terrore. Tu racconti ed io ricordo, mentre leggo le linee intrecciate sul palmo di una mano e le vicende che esse rievocano. Una mano aperta al mondo, le cui cinque dita raccontano ciascuna una storia diversa ma si raccolgono tutte in quel palmo. Una mano forte che sa accarezzare. Cinque membri di cui io sono l‘irriverente mignolo.
E allora raccontami, continua a raccontare. Del ciabattino poeta che era mio nonno e, riunendo i figli attorno al braciere la sera, esordiva sempre con la stessa formula, tra apertura in italiano aulico e spiritosa chiusura in dialetto. Raccontami del prozio salpato ragazzino per l‘America, testimone minore di una Storia gigantesca comune a molti, che ha fatto fortuna e che, lui sì, ha pubblicato le sue poesie, in italiano, inglese, calabrese, un concerto di nostalgia dagli accenti diversi. Raccontami di un nonno visionario, creativo e lungimirante, tornato dall‘America e troppo giovane partito per la Vita Eterna. Di una nonna esemplare, la cui saggezza é un breviario da conservare con cura, la cui vita tutta é testimonianza che va custodita. 
Raccontami l‘orrore delle sirene di guerra che violentano l‘infanzia, il coraggio di ricominciare tutto. Raccontami l’intraprendenza di una giovane donna orfana di padre che resiste al pregiudizio di una società patriarcale, di una famiglia di donne che si affermano, più forti delle discriminazioni maschiliste degli anni Cinquanta. Raccontami di spiagge bianche dove al mattino passeggiano le aragoste. Le marachelle di un bambino discolo ed ingegnoso.  
Raccontami il mare e le sue vicende, le misteriose correnti che io mi sento addosso. Raccontami l’aria dell’alta montagna, i ghiacciai imponenti e le storie degli alberi, chissà se sono sempre le stesse. Di un ragazzino che di colpo diventa capofamiglia, mantiene genitori e fratellini, e studia la sera sotto il lampione di una strada perché a casa la luce non c‘é. Raccontami la più bella storia d’amore che nessun poeta ha potuto eguagliare. Raccontami il Natale, quello povero in materia e pieno in spiritualità, lontano dai fasti e dalle abbuffate e rigoroso nei suoi riti, una tradizione di gesti e di sapori così minuziosamente descritti da essere replicati senza difficoltà di generazione in generazione, fino ad oggi, fino alla mia casa in Germania. 
Raccontami la velocità con cui é cambiato tutto, un’epoca in pochi anni. Raccontami quella ninna-nanna che mi piaceva tanto, che parlava di una notte che pioveva e che tirava un forte vento, ma la voce rassicurante di papà trasformava quel tormento in un canto dolcissimo, una realtà immacolata dove ogni cosa tornava al suo posto, come la sentinella che torna al suo posto sotto la tenda a riposar. 
Anche tu ora riposi e tocca adesso a chi c’é divulgare i tuoi racconti. Su altre pagine però…
Se, come si é detto, ogni storia é vita nel suo svolgersi, ed é nel contempo garanzia di vita, il punto che la conclude non é mai definitivo, é solo un segno grafico che sancisce il meritato riposo sotto la tenda, prima che la storia riprenda ad essere raccontata, e quindi a ri-esistere. E noi? Noi che ci siamo presentati attraverso i nostri scritti, ci siamo svelati nei nostri testi, e ancora non siamo sazi di raccontarci, non siamo forse i testimoni sinceri, autorevoli e aggiungo simpaticissimi della funzione eternatrice del racconto? Sarà mai che anche noi andiamo a conquistarci un po‘ di eternità? :-)

Data: 27-10-2023
Giuseppe BAMBACE

LABORATORIO DI SCRITTURA – LETTERA R

RADIO LIBERA

Anch’io ho fatto parte della galassia delle radio libere, dopo che la Corte costituzionale sancì la liberalizzazione dell'etere il 28 luglio 1976. Un pianeta piccolo, in una soffitta di Piazza Statuto, un mixer due piatti e un microfono, uno scaffale con una proposta limitata di dischi, tant’è che portavo da casa la mia scaletta di musica da mandare in onda.
Pochi selezionati ascoltatori, i più fedeli dei quali i miei fratelli, in particolare Stefania che monitorava volume sintonia e dispensava suggerimenti tenendo occupata per ore la linea telefonica di casa.
La potenza era limitata e la diffusione non copriva nemmeno l’area della città per intero, ma vivevo un’esperienza ugualmente emozionante, che riempiva lo spirito di senso di libertà, di affrancamento dal giogo dell’informazione, del linguaggio, delle proposte musicali di Radio RAI.
Non era solamente il bisogno di soddisfare le richieste giovanili di un nuovo linguaggio di comunicazione, di una fresca proposta musicale. 
Era un’ispirazione libertaria, la rivendicazione di un diritto, in alternativa alle imposizioni delle potenti sale del potere.
Inaugurava una luminosa stagione della comunicazione, il microfono aperto rompeva con i canoni dei testi preconfezionati, dei veti imposti da ottusi burocrati che spesso precipitavano nella censura. Aveva la freschezza del dialogo diretto, che consentiva di esprimere i bisogni le idee i sentimenti degli ascoltatori.
Non voglio dilungarmi su come questa galassia si è espansa fino ai giorni nostri, sulla trasformazione in un sistema di emittenti commerciali, finanziarie politiche o altro ancora. Una polverizzazione che annovera ancora oggi poche stelle luminose e una miriade di pianeti totalmente aridi.
Desidero invece cristallizzare il mio pensiero su quella spinta originale che l’aveva generata, il big bang che davvero costituiva una miscela di creatività e innovazione, di entusiasmo e di partecipazione che, pur con tutti i suoi limiti e contraddizioni, come citava Gaber rimane la pietra miliare della libertà.
L’entropia di questo universo è stata tradotta magistralmente da Finardi in una delle sue canzoni più ispirate:
“con la radio non si smette di pensare e se la radio è libera, ma libera veramente, mi piace ancor di più perché libera la mente”.


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