Stefania

 BAVIERA e BILDUNGSZENTRUM 


Nell‘autunno del 1995, fresca di laurea in Lingue e Letterature Straniere, decisi che era giunto il momento di conoscere da vicino una realtà e soprattutto una cultura che, nel corso dei miei studi, a più riprese e con insistenza aveva stuzzicato la mia curiosità, cioè la civiltà tedesca. 

Il mio curriculum universitario non contemplava la germanistica, per scelta personale. Tuttavia, per anni ero inciampata in termini cari al mondo letterario, la cui lunghezza mi affaticava gli occhi e la cui difficile pronuncia mi attorcigliava la lingua, da „Leitmotiv“ a „Sehnsucht“ a „Weltanschauung„  giusto per citare i più frequenti. 
Inciampavo di continuo naturalmente anche nei nomi dei grandi poeti e dei grandi filosofi tedeschi che tanto avevano influenzato la nostra cultura occidentale e affascinato me. Infine, nel mio vagabondare tra alti ideali e più concreti viaggi-studio in varie città europee, un giorno sono inciampata anche negli occhi da cerbiatto di un bel ragazzo tedesco. Questo incontro é stato l‘argomento più convincente di tutti gli altri precedentemente citati per iniziare un nuovo capitolo della mia vita ed andare alla scoperta della terra tedesca. Destinazione: BAVIERA, essendo il mio ex fidanzato (oggi marito), originario di Norimberga, ufficialmente la seconda città più grande della Baviera, dopo Monaco.  Il mio obbiettivo era quello di iniziare l‘attività di docente di lingua e letteratura italiana in una qualche università bavarese. 
Per completare il mio profilo professionale, nonché per integrarmi a pieno titolo nella società che mi accoglieva, era assolutamente necessario che prima apprendessi la lingua. 
A tale scopo decisi di vivere in un primo tempo da sola in una romantica cittadina situata nel nord-ovest della Baviera, a un centinaio di chilometri di distanza da Norimberga, Rothenburg ob der Tauber, sede di uno dei più prestigiosi centri di studio della lingua tedesca, il Goethe Institut. Qui frequentai un corso intensivo di tedesco, della durata di otto settimane, successivamente prolungato di altre otto a seguito dell‘elargizione di una borsa di studio.
In questo lasso di tempo collezionai una vastissima gamma di esperienze, di conoscenze, di impressioni che per semplicità potrei definire altamente formative a più livelli.
Per non essere eccessivamente prolissa vorrei soffermarmi su due aspetti, i più pertinenti al tema del nostro incontro.
1. la funzione propedeutica dei corsi di lingua da me frequentati al mio successivo lavoro di docente.

2.la rivelazione di non essere approdata in Baviera, come pensavo, bensì in Franconia, terra dei Franchi. 

Inizierei proprio da questa informazione, sperando di regalarvi qualche piccola curiosità.  
Prima però é necessaria un‘ulteriore precisazione: spesso un antico cliché associa la Germania nel suo insieme alla Baviera, o meglio alla sua immagine stereotipata da „Oktoberfest“. In realtà si tratta di un grossolano errore ed anche di un paradosso, perché in Germania la Baviera é considerata così speciale e specifica che sembra quasi un‘entità separata, non tedesca. Non a caso é una sorta di „regione a Statuto speciale“. L‘esempio più eclatante di questa alterità viene dalla politica:
il partito dei cristiano-democratici, CDU, cui sono appartenuti cancellieri storici quali Adenauer, Kohl, Merkel, in Baviera é un‘entità separata, il CSU, presente solo sul territorio bavarese ed unicamente in occasione delle elezioni federali in coalizione con il partito gemello. Un‘eccezione assoluta all‘interno del Parlamento federale.

Anche la sua posizione geografica, essendo il Land più meridionale della Germania, ha contribuito ad accentuare questa percezione di lontananza e separatezza della Baviera dal resto del Paese. 
Non amo le generalizzazioni e non vorrei ora cadere in questa trappola per necessità di sintesi, ma in effetti anche per me fu immediata l’impressione di un contrasto piuttosto netto tra la popolazione tedesca del Nord ed i bavaresi. Ai miei occhi sembrava (e sembra ancora oggi) che questi ultimi non riuscissero a riscattarsi da una componente di provincialismo nei modi e nei pensieri e di una rudezza probabilmente figlia di una mentalità rurale che ha caratterizzato la Baviera fino agli anni cinquanta, prima della sua svolta industriale. I non-bavaresi, invece, mi apparivano tutti, pur con le dovute sfumature, più garbati, più raffinati, più colti e più aperti. 
Negli anni a seguire, cioé nella seconda metà degli anni Novanta dovetti  però confrontarmi con una distanza ancora più netta, quella tra i tedeschi dell‘Ovest e quelli dell‘Est, ma questa é davvero un‘altra storia e meriterebbe un approfondimento a parte.

Tornando al mio periodo di permanenza a Rothenburg, mi trovavo in una piccola bomboniera medievale con edifici e mura perfettamente conservati, una sorta di contenitore dal profumo antico di una brulicante comunità composta da studenti provenienti da varie parti del mondo, professori universitari e docenti dell‘istituto Goethe originari di ogni angolo della Repubblica federale, masse di turisti giornalieri organizzati in gruppi di diverse grandezze, e da pochi e scontrosi abitanti locali. 
In un ambiente così variegato non avevo ancora acquisito la consapevolezza di trovarmi nel cuore di una regione che ben poco aveva a che fare con il suo Land di appartenenza, „il libero Stato di Baviera“. Soltanto in seguito, dopo aver preso domicilio a Norimberga, e sostenuta da una competenza linguistica via via meno incerta, mi sono resa conto di essermi trasferita, a mia insaputa, nell‘orgogliosa terra di Franconia.

Questa regione, situata nel nord della Baviera, é stata per secoli un‘area totalmente autonoma ed ha una sua storia indipendente.
Già nel corso dell‘ VIII secolo i Carolingi avevano annesso al regno franco gli originali ducati tribali tra cui, appunto, la Franconia. Con la creazione del Sacro Romano Impero Germanico la Franconia fu anche un circolo imperiale fino al 1806. 
Nel 1810, con la caduta del Sacro Romano Impero della nazione germanica, Napoleone Bonaparte, nella sua funzione di console della Confederazione del Reno, volle assicurarsi l’alleanza del re di Baviera e gli concesse l’annessione di vari territori, tra cui appunto quello della Franconia. Così anche la splendida città di Norimberga perse il suo status di città imperiale, il cui peso politico e splendore culturale si era affermato ai suoi massimi livelli tra il XV e il XVI secolo. La storia recente ha consacrato in maniera definitiva Monaco come capitale economica e commerciale del Land, il più ricco della Germania.
Gli abitanti della Franconia, tuttavia, sono ancora oggi molto orgogliosi della loro identità culturale, anche se le istanze separatiste si manifestano più in modo scherzoso e folcloristico che realmente intenzionale. Spesso ricorre, ad esempio, il gioco di parole „Frei statt Bayern“ (liberi invece che bavaresi“) che fa il verso alla denominazione ufficiale del Land „Freistaat Bayern“ (libero Stato bavarese). Si tratta più di un gioco irriverente che di un vero slogan indipendentista.
Il mio sguardo di osservatrice esterna, comunque, aveva rapidamente individuato questa spaccatura dai confini geografici non ben definiti ma facilmente rintracciabile nella diversità assoluta del dialetto, della confessione religiosa (mista, con una prevalenza luterana in Franconia, solidamente cattolica in Baviera), della tradizione culinaria e infine, dettaglio non trascurabile in Germania, della estrema peculiarità delle rispettive birre prodotte, di gusto antitetico. I tratti caratteriali delle persone, inoltre, tradiscono spesso il luogo di origine: come accennavo in precedenza, rudi e festaioli i bavaresi, riservati ma talvolta eccessivamente diretti i franconi, i quali però, una volta rotto il ghiaccio, sanno essere amici sinceri e leali per la vita.

Nella primavera del 1996 avevo preso stabile dimora a Norimberga, la cui bellezza mi aveva stregata. Ero in attesa di ricevere una risposta dall‘Università della vicina Erlangen per un posto di lettrice d‘italiano quando, con mia sorpresa, arrivò una convocazione dal BILDUNGSZENTRUM della città di Norimberga. Si trattava di un grande centro culturale, il più vasto per importanza e varietà di proposte di tutta la Germania. Si offrivano naturalmente anche corsi di lingua italiana per adulti. 
Sarei stata assunta con un contratto da libera professionista e avrei cominciato subito l‘autunno successivo con un corso di conversazione, livello avanzato, rimasto orfano di docente dopo  il trasferimento della collega che lo teneva. La proposta mi allettava e mi spaventava allo stesso tempo. Non avevo esperienza di insegnamento ed il mio tedesco era discreto, ma indubbiamente non ancora di alto livello. Sarei riuscita a gestire un gruppo eterogeneo di persone? Sarei stata in grado di comprendere le loro domande, se formulate in tedesco? Ero stata per anni una studente in giro per l‘Europa con una soddisfacente padronanza di inglese, francese e spagnolo. Ora i ruoli si erano invertiti. L‘insegnante ero io, ma dovevo trasmettere la mia lingua madre a studenti tedeschi.  Senza un libro di testo di riferimento. L‘entusiasmo di avviare questa avventura prese il sopravvento sul timore ed accettai immediatamente la proposta di lavoro.
La mia mente era una fucina di idee, un vero vulcano. Avrei dato un‘impostazione nuova al corso, una nuova denominazione che potesse attirare la curiosità di più gente possibile, avrei lavorato solo con materiale autentico: interviste audio e video ad amici e conoscenti in Italia, pagine letterarie, visione di film, ascolto di canzoni…. 
i suggerimenti didattici dei miei insegnanti del Goethe non sarebbero stati vani, li avrei fatti miei per proporre un approccio nuovo e creativo allo studio della lingua e alla conoscenza della cultura italiana. 
Per me aveva inizio una grande sfida, ed il Bildungszentrum era il luogo veicolato a realizzarla. Da subito il mio lavoro divenne una sorta di missione, quella di mostrare una fotografia il più possibile oggettiva dell‘Italia, lontana dall‘immagine da cartolina ma anche dagli stereotipi più fastidiosi e talvolta umilianti. Il mio intento era quello di scoprire e lasciar scoprire un‘Italia di cui all‘estero non si parla, scardinare le loro idee preconcette, nel bene (perché i tedeschi ci amano molto più di quanto noi amiamo loro) e nel male (alla cui formazione noi stessi abbiamo ampiamente contribuito). Quel primo corso fu il trampolino di lancio verso un‘attività d’insegnamento sempre più intensa e variegata nei contenuti. Dai corsi di „grammatica alternativa“, ai seminari di letteratura a tema, workshops di suggestopedia, presentazioni e letture di romanzi nella biblioteca comunale, serate dedicate a temi di attualità, dibattiti, corsi di lingua intensivi e molto altro ancora…. 
dal 1996 al 2019, quando per motivi personali sono stata costretta a ritirarmi dall‘attività professionale, il Bildungszentrum ha significato per me molto più di un mero luogo di lavoro. Era la mia seconda casa. Tra le sue pareti, peraltro in un edificio storico nel cuore della città antica con vista mozzafiato sulla fortezza imperiale, avevo fondato una sorta di colonia della nostra migliore Italia. Non saprei dire se il mio sforzo e la mia passione siano stati sufficienti a conseguire un risultato di una qualche utilità per qualcuno. 
Per me personalmente quegli anni sono stati  un grande arricchimento grazie alle persone di notevole spessore umano che ho incontrato e a cui ho avuto il privilegio di insegnare, ma soprattutto hanno costituito una preziosa occasione per mantenere saldo il rapporto con le mie radici. Da esse ho tratto la linfa vitale che mi ha concesso di crescere umanamente e culturalmente e di allargare i miei rami verso porzioni sempre nuove di cielo.



Maestro di vita

Che cos‘é un „maestro“?
Consultando vari dizionari della lingua italiana si possono leggere  definizioni con sfumature leggermente diverse.
Per esempio:

 Persona che in virtù delle cognizioni e delle esperienze acquisite risulta all'altezza di contribuire in tutto o in parte all'altrui preparazione o formazione“

oppure: 

Persona particolarmente abile, che eccelle in uno o in più campi di attività, tanto da poter costituire un modello“ 

 o ancora:

„Capo, guida“

e addirittura secondo la Treccani:

 titolo di rispetto, riferito a chi, nell’insegnamento, rivela particolari doti, soprattutto per vastità di dottrina, efficace chiarezza didattica; perciò usato talvolta come appellativo, in segno di venerazione , rivolto a un docente che si desideri collocare al disopra del comune livello. 

e molte altre.

Aver scelto di riportare proprio queste definizioni non é stato casuale. Per me personalmente la parola maestro richiama in modo immediato una figura reale, concreta, l’incarnazione e la sintesi di quanto descritto sopra. Una persona che ho avuto il privilegio di incontrare agli albori del mio percorso formativo: il mio maestro di scuola elementare, un autentico maestro di vita. 

Il suo insegnamento infatti é andato ben oltre la mera istruzione: é stato determinante nel farmi sbocciare come persona, mi ha fornito gli strumenti per discernere le mie abilità dai miei limiti, mi ha indicato una strada che potesse diventare la mia strada, mi ha trasmesso valori etici senza moralismi.  Grazie a lui curiosità e sete di conoscenza non mi hanno più lasciata. 

Potrebbe apparire uno slancio eccessivo, ma davvero  non esagero nell’affermare che a lui devo persino un’eredità professionale.
L’ approccio pedagogico-didattico che ha contraddistinto lo stile delle mie lezioni, per quanto rivolte ad un pubblico adulto e non ad allievi della scuola primaria, é senza dubbio figlio di quanto esperito nei miei anni di scolara. 
Il mio racconto, dunque, parte necessariamente da molto lontano.
Nel 1973 la scuola elementare „Giuseppe Mazzini“ di Torino apriva finalmente le porte alle classi miste. Era l’anno del mio ingresso a scuola ed ho potuto usufruire di questa importante innovazione. Il mio maestro, Michele Peluso, mi avrebbe accompagnata per cinque, fondamentali anni, dimostrandosi sin dal primo giorno un pioniere della didattica. 
Il mio primo ricordo sono le sue parole di benvenuto a noi emozionati „remigini“, a cui hanno fatto subito seguito le prime istruzioni: „Niente gomma!“, due parole dette con grande autorevolezza che mi avevano provocato una sensazione di terribile imbarazzo, con il mio bell‘astuccio nuovo di zecca corredato di tutti gli strumenti necessari, tra cui una grande gomma bicolore (utile per la matita e per la penna), letteralmente spalancato ed in bella vista al primo banco dinanzi la cattedra. Spaventata, la mia prima reazione fu di nascondere l‘oggetto incriminato sperando di non essere scoperta. Quella che sembrava una norma un po‘ strana si rivelò nel corso degli anni il primo significativo insegnamento. 

Gli errori sono importanti. 
Cancellarli, farli semplicemente sparire dalla vista, equivale ad una finzione. Come se non fossero mai stati commessi. Al loro posto, una versione corretta e pulita, magari suggerita da altri. 
Invece l‘errore, in grammatica, ortografia, matematica così come nella vita, prima di essere corretto necessita di una riflessione. 
Si tira una riga sopra ma l‘errore deve restare leggibile perché da esso si possa realmente imparare. 

Tutto questo il maestro Peluso non ce l‘ha mai spiegato ma ce l‘ha insegnato. 
Lo abbiamo compreso da soli, nel tempo.
Perché l‘autonomia d‘apprendimento é stato uno dei pilastri del suo metodo d‘insegnamento, e ad essa ci ha condotti attraverso un allenamento quotidiano.

Nel corso della mia attività di docente quante lezioni ho preparato, quante strategie ho elaborato per accompagnare i miei studenti a riconoscere e correggere da soli i propri errori, lasciando a loro lo sforzo di una soluzione possibile, o magari anche più di una, purché accettabile dal punto di vista grammaticale, comunicativo e di accuratezza della lingua. 
Ciò implicava una riflessione profonda.
Molto importante, a questo scopo, era il confronto tra pari prima di una discussione finale in plenum.
Il metodo non era un ricordo, era un‘eredità.
Avevo frequentato negli anni diversi e qualificati corsi di formazione, alcuni molto specifici, che avevano costituito il fondamento della mia linea di insegnamento. A ciò si aggiungevano i suggerimenti didattici dei corsi di lingua che io stessa avevo frequentato. 
Ciò che però era peculiare nelle mie lezioni era una didattica istintiva che faceva parte di me, della mia identità in quanto persona prima ancora che in qualità di docente. 
E questo, davvero, lo dovevo al mio maestro. 

Elencare tutti i meriti di questo grande uomo é veramente complicato.

L‘apparente disordine dell‘aula, con quei 30 banchi disposti in una sorta di ferro di cavallo irregolare, era un segno visibile del distacco da una lezione di tipo frontale. 
Unico caso in tutta la scuola, la nostra classe era dispensata dall‘uso del grembiule per le bambine e da uniformati maglioni blu per i bambini. Un chiaro segnale di affermazione dell‘individualità sull‘anonimato di una massa.

Le pareti erano coloratissime, decorate con i nostri lavori, costituiti da ricerche di gruppo ma anche lavori individuali raccolti in apposite cartelline. 
Un armadio conteneva la nostra personalissima biblioteca. Chi lo desiderava, metteva a disposizione i propri libri che aveva a casa. Il prestito era autogestito, a turno uno di noi svolgeva il ruolo di bibliotecario. 

In questo apparente caos, se paragonato alla simmetricità ed uniformità delle classi parallele, le mattinate erano scandite da un ritmo di lavoro molto regolare e molto preciso.

Si esordiva con una preghiera pensata, scritta e letta ad alta voce da uno di noi, scelto a turno dal coordinatore responsabile per quel determinato mese. Il coordinatore veniva nominato di volta in volta dal maestro, e questi a sua volta organizzava il calendario dei turni. Il compito, dunque, toccava a tutti. Le preghiere venivano raccolte in una delle sopra citate cartelline.

Come tutti i bambini che hanno ricevuto la Prima Comunione, anch‘io ho frequentato il catechismo. Della mia catechista non solo non ricordo il nome, ma nemmeno il volto. 
I primi passi di un cammino spirituale sensato li ho mossi proprio in quelle particolarissime ore di religione.

Dopo la preghiera, seguiva la lettura di una poesia. Il procedimento era analogo. Ogni giorno un bambino presentava alla classe una poesia da lui scelta. Il lavoro di preparazione a casa doveva essere molto scrupoloso: una volta scelta la poesia da leggere bisognava brevemente illustrarne il significato, fornire notizie sull‘autore, ricercare ed evidenziare parole nuove, abbellire l‘elaborato con un disegno che rappresentasse la propria personale interpretazione. La cartellina delle poesie raccoglieva i testi di tutti e restava alla parete, aperta ad eventuali consultazioni. 

Avevamo sette anni.

Le ricerche di storia e di geografia erano normalmente effettuate in gruppo, in un tempo prestabilito. L‘iniziativa singola era quella di fornire materiale ai compagni ed insieme si ragionava sulla modalità di presentazione dell‘argomento. 
I cartelloni con il prodotto finale trovavano tutti il loro spazio alle pareti. 
Le attività di gruppo si alternavano a momenti di lavoro individuale nelle varie discipline.
Erano i momenti di concentrazione ed assoluto silenzio.
L‘evento più importante era la stampa del giornalino di classe, solitamente a scadenza trimestrale. In esso erano contenuti i migliori elaborati di ciascuno di noi ( nei primi due anni pensierini, poi veri e propri temi).
Ogni tema veniva personalizzato con un titolo riassuntivo e ad effetto („Terrore nel buio“ oppure „La musica della montagna“) e completato da un disegno che ne esponesse il contenuto.
Il giornalino si chiamava „La cicala“, aveva un suo simbolo (oggi si chiamerebbe logo) ma una copertina sempre diversa. Naturalmente illustrata dai nostri disegni.
I fogli originali venivano stampati in una trentina di copie dal maestro, con la nostra collaborazione, e venivano ordinatamente pinzati insieme. Si deve pensare ad una stampante tecnicamente „preistorica“ ma efficace. 
Ho tuttora gelosamente conservati questi giornalini. 

L‘elaborato d‘italiano ed il problema di matematica erano il compito obbligatorio a casa tutti i giorni. Spesso non si trattava solo di un tema, bisognava descrivere un oggetto casalingo od osservare persone o situazioni che accompagnavano le nostre giornate. Oppure inventare dialoghi improbabili con personaggi storici o cose inanimate che improvvisamente venivano dotati di parola, esponevano il loro punto di vista e rispondevano ai nostri perché. Credo di aver fatto parlare tutti gli antichi greci, tutta la Roma imperiale, tutti i grandi da Carlo Magno all‘ultimo Presidente della Repubblica e di aver dato voce ad ogni foglia, gemma, nuvola, bambola, radio, caffettiera ed orologio!

Ad ogni libro letto seguiva necessariamente un riassunto. Si noterà anche adesso che sintetizzare non era proprio il mio forte….
In terza elementare eravamo già invitati a fare uso del dizionario e consultare il dizionario dei sinonimi e contrari. 
In matematica bisognava dare spiegazione scritta di ogni procedimento effettuato. Sovente il compito consisteva nell‘inventare un problema e risolverlo! Non nego che ogni tanto la testa mi andava totalmente in fumo.

Un compito che a casa non mancava mai e che veniva scrupolosamente esposto in plenum il giorno successivo, erano gli esercizi di analisi grammaticale e di analisi logica. 
Ho riempito quaderni interi. 
Una pignoleria che mi ha facilitata enormemente nel comprendere l‘anima delle lingue straniere che ho successivamente studiato e che mi ha fornito i migliori strumenti per spiegare ai miei studenti tedeschi la logica della lingua italiana.

Potrei andare avanti all‘infinito a descrivere la scansione delle mie giornate di scuola. Credo che già si possa evincere una perfetta alchimia di duro lavoro, impegno, senso di responsabilità, passione, interazione sociale, sollecitudine alla fantasia, curiosità intellettuale ed umana. E molto altro….

Le mattinate dense di attività si scioglievano in modo inaspettato nelle giornate di sole, in cui il maestro ci conduceva in cortile a giocare. Per ore. 
A Carnevale ci concedeva la festa in costume, con coriandoli e stelle filanti sparsi per la classe, musica ad alto volume e giochi.
A Natale la recita era un’ autentica opera teatrale, in cui tutti, nessuno escluso, aveva una parte assegnata, in alternanza a canti anche in lingua inglese. Il presepe era allestito da noi, con figurine in cartoncino disegnate, ritagliate e colorate, prodotte da noi stessi. 
Uno squilibrio assoluto di proporzioni ma così autentico!

Ho conosciuto ogni singolo museo ed ogni luogo d‘interesse della città di Torino grazie alle numerosissime visite da lui organizzate.  

Il maestro riusciva ad equilibrare perfettamente severità e libertà di espressione. Ha tirato su individui, non scolari.

Tralascio molte altre sollecitazioni culturali, dal disegno alla musica, alla lettura comparata dei principali quotidiani, ma vorrei lasciare spazio ad un‘ulteriore osservazione. 
Nei primi anni settanta non esistevano gli insegnanti di sostegno. Nella mia classe c‘era un bambino con un ritardo psichico. Oggi si definirebbe „diversamente abile“ , nel linguaggio politicamente corretto. 
Nessuno in classe si é mai accorto di nulla, fino all‘esame di licenza elementare. Non perché il disagio non fosse grave o perché noi fossimo bambini particolarmente ingenui ma perché il maestro aveva svolto un lavoro di integrazione di una delicatezza infinita. Pino era un bambino come tutti gli altri. Aveva il suo spazio d’espressione e il suo ruolo nella classe come tutti. Non si é mai sentito diverso e noi non lo abbiamo mai percepito come tale. 

Il maestro Peluso se n‘é andato troppo presto. Cinque anni dopo il termine del mio ciclo elementare. Ha permesso che una banale appendicite si trasformasse in peritonite perché doveva preparare la sua classe agli esami e non voleva assentarsi dal lavoro. Operato d‘urgenza, non é sopravvissuto all‘anestesia. 
Dedito fino all‘ultimo alla sua missione.

A lezione l’ho sempre portato con me.
Rivoltando banchi, sedie, metodi, schemi lineari,  facendo della mia aula di volta in volta un’officina operosa, un teatro, un caffé in piazza, un salotto letterario o una discoteca, arredando le pareti con poster e citazioni, alzando il volume della musica e delle voci di tutti i miei allievi.

Forse é più appropriato dire che é stato il mio maestro ad accompagnarmi ogni giorno in cui ho tentato di trasmettere ai miei studenti uno slancio ed uno sguardo sul mondo che andassero oltre l‘apprendimento asciutto e meccanico di una lingua. 

Grazie, signor maestro!



GIOIA

Gli esperti di psicologia definiscono la gioia un‘emozione primaria.
Io ho qualche difficoltà a catalogare le emozioni in primarie e secondarie, di tutte riconosco l‘importanza ed in modo equivalente. Anche l‘antitesi tra emozioni positive e negative mi pare un‘opposizione troppo sommaria e un po’ banale che meriterebbe un‘analisi più approfondita.
Io credo che la vera negatività risieda piuttosto nell‘assenza di emozioni, nell‘indurimento o nel raggelamento del cuore, nell‘ottenebramento. É indubbio comunque che la gioia abbia per sua natura una radice luminosa, associabile a tutto ciò che é piacevole. 

La mia impressione però é che tutti noi, nella legittima ma spesso affannosa ricerca della felicità facciamo una gran confusione tra istinto del piacere e gioia. Forse dovremmo domandarci se tutto ciò che é piacere coincida necessariamente con la gioia. Per sua natura il piacere é fugace, senza dubbio altamente gradevole, ma non contempla la durata, o meglio, la permanenza. Il ricordo di una gioia, invece, ha un’intensità diversa, si eleva e diventa memoria. Si ferma. Rimane.

Insegnando italiano mi sono resa conto che la nostra lingua, curiosamente, ha una predilezione per il campo semantico del piacere. Si direbbe una lingua sensoriale e sensuale ma che talvolta é incline alla superficialità.
Un fenomeno interessante, se si considera che la lingua é l‘anima di un popolo. 
Cito qualche piccolo esempio.
Quando ci si presenta l‘espressione più immediata é „piacere!“, quando si accetta una proposta od un invito si dice „con piacere!“, quando ci si rallegra si afferma che „ mi fa piacere“ o „mi ha fatto molto piacere“ , un piatto gustoso „piace“, così come un‘attività o una persona, e così via….
Al giorno d‘oggi anche l‘approvazione digitale sui social media, il cosiddetto „like“ diventa in italiano un „mi piace“.

Mi sono permessa questa divagazione perché mi sembrava utile per evidenziare come gioia e piacere non siano necessariamente sinonimi e nemmeno apparentati.  Sintetizzando, si potrebbe affermare che il piacere é una sensazione, la gioia un sentimento. L’italiano consente questa distinzione, il tedesco, come l’inglese, che non sono lingue romanze, accorpano entrambi in un unico termine: Gefühl in tedesco, feeling in inglese. Quanti segreti si celano in una lingua! (Perdonate la deformazione professionale)
Eppure, come accennavo in precedenza, gioia e piacere vengono spesso confusi ed identificati in egual maniera come fonte di felicità. 

La felicità é, dal mio punto di vista, un assoluto che non rientra ora nella mia dissertazione.
La gioia, io credo, non È.  
Si prova. Si sceglie. Non é semplicemente qualcosa che ci accade ma qualcosa a cui ci si può aprire o chiudere mentre accade. 
Si innesta solo se siamo abili nel riconoscerla, liberandoci da veli tenebrosi che ci offuscano la vista e ci chiudono il cuore.

La memoria di una gioia vissuta, poi, la rinvigorisce e diventa essa stessa motivo di gioia. 

La fonte di una gioia é del tutto personale, altrettanto lo é l‘abilità di riconoscerla. 
Senza incorrere nella tentazione un po‘ narcisistica di affermare in modo oggettivo quali potrebbero essere motivi di gioia, mi limiterò a condividere le mie personali sorgenti di gioia, correndo il rischio di sembrare banale.
Tralascerò gli eventi significativi e spartiacque quali per esempio la nascita di un figlio o esperienze immemorabili, mi limiterò ad uno sguardo sul quotidiano.

In primo luogo, la libertà. La libertà nelle sue varie sfaccettature é la fonte primaria di gioie molteplici. Poter decidere senza costrizioni come investire il proprio tempo a disposizione. 
Avere la possibilità di passeggiare e decidere dove. Magari con chi. O scegliere consapevolmente  la solitudine. Avere la possibilità di aprire gli occhi alle meraviglie, grandi e piccole, del creato. La luce del tramonto che cambia i contorni alle cose, una stella cadente, un fiore umilissimo. 
Poter approfittare del dono di un‘acqua in cui immergersi, sia mare o lago o ruscello. Decidere di andare a calpestare la neve che ha ricoperto il prato. Scegliere in assoluta autonomia quale libro leggere. 
Tutto ciò per me non ha nulla di scontato. 

Così come non é scontato il lavoro. Per tanti é fatica, stress, frustrazione e a volte sfruttamento. Per me, e lo dico con gratitudine, é stata sempre gioia pura. Un‘occasione, anzi, tante occasioni in più per sorridere.  Per crescere spiritualmente ed intellettualmente.

Gli abbracci con le persone che amo. 
Restringo il cerchio e dico le persone che amo e di cui sento l‘amore e l‘amicizia. Le loro parole, i loro gesti affettuosi. La loro ricchezza interiore.

Ho già citato i libri, parlando del privilegio di poterli scegliere. L‘immersione nella lettura é gioia potente.

L‘ascolto di un brano musicale che a sua volta, in un gioco di cerchi concentrici, richiama gioie passate.
In simil maniera, la fotografia, l‘istante di gioia piena che viene fermato e così reso perpetuo.

La danza, l‘espressione corporea di un sentire profondo, é un‘occasione di incontenibile gioia. 

La lista é assai lunga, di certo non si ferma qui. Sono consapevole che ora  la mia scrittura si va delineando in forma e contenuto sempre meno originale, eppure l’ordinarietà degli esempi che cito può davvero essere vista da un’altra angolazione. Può riempire di significato l‘esistenza ed essere motivo di gioia profonda. 

Paradossalmente, é la privazione di ciò che sembra piccolo ed insignificante ad evidenziarne il valore. Sarebbe bene non perderlo di vista. 

Vorrei concludere esprimendo la mia gioia nel poter prendere parte a questa bellissima iniziativa! Conoscervi ed ascoltarvi é ogni volta un‘esperienza arricchente ed un nuovo motivo di gioia.  Grazie!




INFIAMMAZIONE 

É peculiare la lettera I. 
Ha una sonorità che stride, un suono acuto e penetrante. Foneticamente, costringe le labbra a socchiudersi ed i denti a serrarsi. Graficamente, é un segno dritto, una linea verticale. Non ha la rotondità delle altre vocali, le braccia protese in avanti della E, o l‘apertura della A. 
Con la dovuta eccezione di parole bellissime, quali INNAMORAMENTO, IMMAGINAZIONE, INCANTO,  INNOCENZA, IRONIA e naturalmente IVANO :-) sembra che la lettera I dìa l’avvio a molti termini circostanziali, chiusi nella sfera personale, INDIVIDUALE, per l‘appunto. 
Primo fra tutti l’IO, questo piccolo implacabile dittatore che in troppi frangenti della vita ci rinchiude in schiavitù, ma consideriamo anche INTIMITÀ , INTROSPEZIONE,  INTERIORITÀ e INTERNO ma anche INTUIZIONE, e via dicendo…. IMPORTANTE é quasi sempre soggettivo, così come INTERESSANTE ed un’IDEA appartiene al pensiero di un singolo. L‘INTELLIGENZA non é mai una sola (si dice che ne esistano otto tipi diversi) ed ognuno ha la sua. 
Anche ITALIA ha i suoi confini geografici ben precisi e l‘ISTANTE é un momento fugace, temporalmente  limitatissimo, IERI é riferito ad un passato che é definitivo, trascorso, non si può cambiare e non ritorna. Chiuso.
La lettera I é a capo dei prefissi IPO e IPER oppure IN che nella sua collocazione sposta il significato di altre parole, per esempio:
IN-tolleranza, IN-differenza, IN-opportunità, conferendo loro un‘accezione per lo più peggiorativa. É IN-sopportabile! 
Preciso che IN-SALATA non fa parte di questo gruppo.

Concluso questo mio giochino con le parole che, devo ammetterlo, mi diverte tanto, vorrei ora soffermarmi con serietà su una parola in particolare.
In un primo momento avevo pensato a ITALIA, ma temevo di dar vita ad un romanzo, considerato il rapporto complicato e conflittuale che ho  con il mio Paese. Una grande storia d‘amore in prevalenza a senso unico, in cui troppo spesso mi sono sentita tradita.
Ho scelto invece una parola il cui contenuto é ormai  parte di me: INFIAMMAZIONE, l‘infiammazione che da alcuni anni ha preso stabile dimora nel mio sistema nervoso centrale. Non INVITATA (questa sì sarebbe una bella parola) si é INSEDIATA, IRRIVERENTE ED INVADENTE e da allora é ospite fissa.
Questa infiammazione scatenata dal sistema IMMUNITARIO in realtà ha un nome ben preciso, si chiama Sclerosi Multipla ed é una malattia cronica, IN-curabile. Multipla perché ha mille sfaccettature diverse, ha una creatività encomiabile nel manifestarsi in modi sempre nuovi e sempre di sorpresa, così almeno non mi dà tempo e modo di annoiarmi.

Quando é arrivata e si é accomodata con maleducazione, ho fatto finta che non ci fosse. Volevo vincerla IGNORANDOLA. Una pastiglietta al mattino e via, mi lanciavo verso le meraviglie di una nuova giornata. Lei, però, si ripresentava puntualmente, fiera della sua fantasiosa abilità nel ricordarmi la sua carica infiammatoria. Consideravo queste apparizioni come momenti di pausa che ero costretta a concedermi, poi mi rituffavo nelle mie attività quotidiane. 
Finché é arrivato un momento in cui il mio organismo infiammato si é trovato a dover fronteggiare una serie di dolori dell’anima e ne é stato travolto. Circostanze che possono accadere a noi vivi, situazioni che fanno parte del cammino di tutti o per lo meno di molti. 
Lei, però, si é rivelata particolarmente astuta e subdola nell‘infiltrarsi nelle mie ferite affettive. Credo che sia un teorema universale, quando la ferita é troppo grande, quando cade una vera e propria grandine di ferite, questa non rimane più nel campo psichico o emotivo ma si sposta sul piano fisico. É uno spostamento misterioso di cui difficilmente riusciamo a costruire una formula scientifica che possa darci una spiegazione ma per me era come se l‘infiammazione, la nuova lesione da essa provocata, mi segnalasse l‘impossibilità di digerire affettivamente la violenza del dolore. 

Tant‘è, il mio quadro clinico era drasticamente peggiorato. Il danno ormai era fatto ed IRRIMEDIABILE. Su un foglio annotai che ogni lesione aveva una data, un nome, un cognome ed una situazione. Risultava evidente che il mio corpo non era più una casa di cui credevo di essere proprietaria ma una sorta di albergo in cui Lei aveva occupato abusivamente sempre più stanze.
Per fortuna la mia cultura calcistica mi aveva insegnato sin da bambina che bisogna riconoscere i meriti dell‘avversario ed ammettere quando é più forte. Lei si era dimostrata più forte. 
Avevo così compreso che era perfettamente inutile cercare un patteggiamento, tentare un compromesso con il mio stile di vita precedente. C‘era un prima e non un poi, IMPONDERABILE, ma un adesso. Dovevo reinventarmi.  Facile? Per nulla.
Scrissi una sorta di memorandum che appesi alla porta del frigorifero, in modo da leggerlo ogni mattina appena sveglia, prima della colazione. É ancora lì, ogni tanto mi tocca apporre  qualche piccola correzione o fare un‘aggiunta. 

Alcuni stralci:

Rallentare il passo ti dà tempo per guardare meglio la bellezza che ti circonda.

Se i tuoi occhi vedono sbiadito hai l‘occasione per non guardare più ciò che fa male.

Se il tuo orecchio é forato, eviti di ascoltare il chiacchiericcio inutile. Hai l‘altro orecchio per restare in ascolto del bello.

Il tuo piede bloccato ti costringe a fermarti e fermarti ti invita a riflettere.

Il dolore ti mette in comunicazione profonda con il tuo corpo e sentire il corpo significa sapere di essere viva.

Ogni attività fisica é sublimata perché come non mai é in comunione con lo spirito (lo yoga, per esempio).

Non lavorare ti regala il lusso del tempo.

Non poter tornare nei luoghi consueti rende più forte il potere e il valore del ricordo.

Ecc….

A volte capita che Lei, la grande infiammazione, si senta presa in giro dalle mie nuove strategie, e reagisce allora indispettita ed offesa. Si inventa qualche nuovo trucchetto per fermarmi. Dopo una prima reazione rabbiosa, mi siedo e anch‘io studio la prossima mossa di questa INFINITA partita a scacchi. 
(Ecco, l‘INFINITO! Che parola sublime! )

Mio figlio mi contesta il colore della sedia a rotelle, nero e blu, perché dice che é dell‘Inter, e non posso dargli torto. Una svista imperdonabile. Però le mie stampelle sono state scelte consapevolmente di un bel rosso Ferrari, in quanto costituiscono il potente motore delle mie gambe. 

Le vista delle scale (da salire o da scendere, é indifferente), coincide in misura perfetta con il peggior turpiloquio che sono in grado di produrre, anche se il più delle volte, per rispetto verso orecchie sensibili e per quel retaggio di educazione con cui sono cresciuta, rimane entro i confini del pensiero, reprimendo la verbalizzazione. 
E pensare che in un tempo neanche troppo lontano facevo step aerobic!
Comunque la soddisfazione di superare l‘ostacolo delle scale é davvero impagabile.

Il fascino romantico della città medievale é rimasto relegato all‘album dei ricordi: girare per le strade di Norimberga, lastricate di ciottolato, spinta amorevolmente da mio marito per salite e discese sulla sedia a rotelle, ha purtroppo l‘effetto di una centrifuga da lavatrice. Per quanta delicatezza possa usare il mio amato pilota, l‘effetto vibratorio delle ruote sul ciottolato é imponente. Sono i momenti in cui
benedico la possibilità di cui ancora dispongo di alternare la comodità del trasporto alla fatica delle stampelle. 

Non posso negare che la progressiva perdita di autonomia unitamente ad un costante, cronico vuoto di energia, abbia il sapore amaro della mancanza di libertà. Esistono le giornate tristi. A volte la resa ad uno stato malinconico. 
Il solo modo per contrastarlo, allora, é accoglierlo e veicolarlo in riconoscenza. Trasformare il rimpianto di ciò che era, nel riconoscimento di aver potuto vivere ciò che é stato. Sentirsi così una persona privilegiata.

Paradossalmente INFIAMMATA lo ero prima. Oggi sono più pacata. Non mi infiammo più così facilmente però mi emoziono e anche spesso, e per questa piccola ma significativa metamorfosi provo una profonda gratitudine Talvolta mi sembra di partecipare ad una grande caccia al tesoro, dove l‘oggetto misterioso da ricercare é la poesia nascosta nelle pieghe dell‘ordinario.

Con impegno quotidiano mi sforzo di abbassare l‘IO e di lasciare sempre più spazio a DIO. Con risultati intermittenti, però quando accade ne ricavo una pace senza eguali.

INFINE, ridere. É bellissimo ridere. 
Non é retorica quando affermo che nessuna terapia potrà mai avere l‘efficacia di una risata. Riuscire a trovarne un motivo non é scontato ma é un impegno che ripaga.
Anche questa non é una formula scientifica ma é straordinariamente, meravigliosamente, umana.


EMOZIONI 
Rispettivamente il 4 ed il 5 marzo 2023 
Lucio Dalla e Lucio Battisti, entrambi giganti della storia della musica italiana, avrebbero compiuto 80 anni.  Immensurabile é il vuoto artistico ed umano che ci hanno lasciato. Senza togliere nulla all‘indiscutibile talento di Dalla, la mia predilezione, per ragioni di carattere sentimentale e biografico, é per Lucio Battisti. Il binomio perfetto tra una musica che trascende sonorità ordinarie, valicando così i limiti della moda di una generazione, e la poesia del suo paroliere Mogol che coglie l‘essenza dell‘uomo di ogni tempo, ha prodotto capolavori che profumano di eternità. Su tutti, l‘album datato 1970, „Emozioni“.
Emozioni però é molto più di un disco che raccoglie canzoni di grande successo. Emozioni é molto più di una singola canzone di successo.
Emozioni é la parola perfetta per sintetizzare e contenere, come uno scrigno prezioso, la forza dell‘inesprimibile, il mio personale indicibile, il moto interiore che mi accompagna dagli anni dell‘infanzia e che quelle canzoni ancora oggi vanno delicatamente a toccare. So bene che sono parte di una memoria collettiva ma se é vero che la poesia é di chi la legge, mi sento di asserire che quelle canzoni sono un‘importantissima privata colonna sonora della mia vita. Ritrovo in ogni nota il mio personale spartito ed in ogni strofa il richiamo di memorie indelebili. Nell‘incontro armonioso tra melodie e parole l‘effetto nell’anima non può che definirsi come emozione!

Il primo ricordo coincide con i lunghi viaggi delle vacanze estive ed una piccola, melanconica lacrima si ferma a metà tra il pensiero e la scrittura. 
Su un‘autostrada assolata, stretti in 5 su un‘Ascona 12 senza aria condizionata, da Torino all‘estrema punta della Calabria, la musica ci allietava. Nel mangiacassette incorporato nell’auto si alternavano Claudio Villa e i Genesis, l‘Orchestra Casadei e Santana (tollerato perché Samba Pa Ti piaceva anche a mio papà). Una facciata ciascuno, per non imporre i propri gusti musicali troppo a lungo. Battisti, però, metteva tutti d‘accordo. „Dolce di giorno….“, la canzone che apriva l‘allegria generale. 
“Per una lira….“ e via, tutti a cantare. 
Non sapevo ancora che quell‘immagine di me bambina stretta in mezzo ai miei due fratelli sul sedile di una macchina in viaggio e la musica ad accompagnarci, sarebbe diventata  una fondamentale metafora della mia esistenza.
Quando era il turno di „Fiori rosa, fiori di pesco“ il battito del cuore accelerava con quel crescendo di fiati e la voce di Battisti sempre più roca e graffiante, un urlo da melodramma pop che tanto mi piaceva imitare, anche se la mia mente di bambina non capiva chi fosse „il signore“ della canzone a cui Battisti-cantante chiedeva scusa. Solo in seguito, molti anni dopo, conoscendo gli inganni dell‘amore, avrei potuto comprendere. 

La musica era una presenza costante in famiglia, direi necessaria. La mia precoce educazione musicale, che ha toccato ogni genere possibile, la devo principalmente ai miei fratelli. Grazie a loro, anche attraverso la musica, ho potuto aprirmi ad una visione del mondo mai banale, apprendere il valore del pensiero libero e curare con devozione la profondità dell’anima. Ho ricevuto un prezioso manuale di istruzioni ed anche la facoltà di emanciparmi da esso, per poter scrivere il mio libro personale. Sicuramente sono tanti i brani e gli autori che mi riportano a questo apprendistato esistenziale, ma le canzoni di Battisti hanno un primato in questo senso, l‘effetto di una madelaine di Proust. Emozioni. Forti emozioni.

L‘inizio dell‘adolescenza, ancora l‘estate, il gruppo di amici riuniti a cantare intorno al falò sulla spiaggia. Battisti e le sue canzoni immancabili protagonisti, c‘era sempre una chitarra con gli accordi giusti e tante voci più o meno intonate che sapevano i testi a memoria. 
La più gettonata era „La canzone del sole“ e in quel „Sono una donna ormai“ la mia rivendicazione gridata al cielo, anche se donna ancora non ero.

I miei amori sgangherati di gioventù sono raccolti in un ideale album di fotogrammi, più che di fotografie, da sfogliare riascoltando i mille amori malati, difficili, finiti cantati da Battisti. Perché se amarsi un po‘ é facile come bere, „volersi bene, no, é difficile quasi come volare“ e di nuovo un crescendo sofferto di voce e parole che culmina nel „veramente noi, vicini ma irraggiungibili“ che diventa il finale obbiettivo da raggiungere. Sempre. 

Il dolce lasciarsi cullare tra letteratura e filosofia, così lontana dal luccichio patinato degli anni Ottanta in cui proprio non riuscivo ad identificarmi, coincideva con l‘oscillazione tra „Il mio canto libero“ ed „Il nostro caro angelo“. 
Nel mezzo, il grido strozzato di quei tristi giardini di marzo che dava voce ad un paradosso inspiegabile che mi toccava nel profondo. 

Ogni canzone del repertorio di Battisti mi riporta ad una situazione vissuta, ad un viso, ad un amico. Eravamo un gruppo di giovani universitari di facoltà diverse, fumavamo sigarette al chiuso e discutevamo di libri, di cinema, di ideologie politiche con la stessa naturalezza con cui parlavamo di noi e delle nostre storie personali. E finivamo sempre con il cantare, e anche in quel contesto le canzoni di Battisti erano un collante, mettevano d‘accordo tutti. Ogni preferenza di allora é oggi per me, riascoltandola, il nome di qualcuno che il tempo e la distanza mi hanno portato via. 

Mentre la vita allargava la quantità di esperienze e la mia curiosità mi spingeva a guardare ad altre culture e ad altre lingue, all‘orecchio risuonava il „dolcemente viaggiare, rallentando per poi accelerare“ che ora stavo realizzando. 

Tanti sono i testi in cui ritrovavo la mia inquietudine, che fosse fame gioiosa di vita o struggente malinconia, ricerca dell‘immenso o paura di perdere il senso di me stessa. Amavo quell‘aquila che non potrà mai diventare aquilone. 

La canzone che però più di ogni altra riusciva a verbalizzare ciò che io non riuscivo a dire, con un arrangiamento ed una voce che mi entravano nelle ossa, é proprio „Emozioni“.
E non so perché ho usato l‘imperfetto.

É una piccola opera d‘arte che si commenta da sola. Faccio fatica a parlarne perché é come aprire il mio diario segreto, pur sapendo che lo é per migliaia di altre persone. Il diritto di appropriazione é sancito nel ritornello, rivolto ad un ipotetico interlocutore: „capire tu non puoi“. (E non importa se i verbi all‘infinito richiamano ad una valenza universale).
Da piccola visualizzavo le strofe come fossero un libro illustrato e senza comprendere provavo, per la prima volta, il senso del mistero dell‘uomo. Via via, con gli anni, le ho incorporate tutte. In base al momento, una strofa prevale sulle altre, a volte si ricompongono tutte insieme. Perché un sentimento attecchisce nel profondo (non per nulla la parola ha una sonorità pesante) ma le emozioni fluttuano, sono dinamiche. 

Con il brano „Emozioni“ ho letteralmente cucito un‘unità didattica. Un‘intera lezione d‘italiano per un pubblico che non conosceva la canzone ed ignorava il suo autore. 
Non starò ora a descrivere i minuziosi passaggi che hanno caratterizzato il lavoro dei miei studenti e mio, ma vorrei soffermarmi un istante sull‘effetto finale che ha prodotto. 
Il brano era diventato ad un tempo patrimonio collettivo e privato anche per corsisti tedeschi. L‘atmosfera era un misto di commozione ed incanto. 
Tornando a casa, ero veramente una tempesta di emozioni. Mi sentivo come chi aveva appena compiuto una missione, dando una doverosa testimonianza al genio e alla sua opera. E allo stesso tempo sentivo una grande, inspiegabile voglia di „sdraiarmi, felice, sopra l’erba ad ascoltare un sottile dispiacere“ 
Tu chiamale, se vuoi, emozioni….


HEIMAT
Quando penso alla lettera H mi viene subito in mente una splendida storiella di Gianni Rodari, tratta dalla raccolta Favole al Telefono: 
“L’Acca in fuga”. Vi si narra di un‘acca esasperata dalle prese in giro delle altre lettere dell‘alfabeto, secondo le quali lei non sarebbe di nessuna importanza, dato che nessuno la pronuncia. Così un giorno, non potendone proprio più, decide di emigrare in Germania, perché -afferma- ha sentito dire che lì le acca sono importantissime! 
Rodari narra quindi della tragedia che segue a quella fuga, a partire dalle chiese che, private dell’acca, iniziano a sbriciolarsi come sotto un bombardamento, le chiavi che non aprono più e, cito testualmente, “Non vi dico il Chianti, senz'acca, che sapore disgustoso. Del resto era impossibile berlo, perché i bicchieri, diventati " biccieri", schiattavano in mille pezzi“.  “Non un solo gallo riusciva a fare chicchirichì, facevano tutti cicciricì, sembrava un‘epidemia di raffreddore!”
In sintesi, l‘acca viene infine raggiunta al Brennero ed implorata di fare ritorno in Italia, dove, tra l‘altro, senza di lei é diventato impossibile perfino pronunciare il nome di Dante Alighieri. Ovviamente le viene garantito da quel momento in poi rispetto assoluto! E meno male, conclude Rodari, perché senza occhiali ma con gli “occiali“, non ci vede un‘acca e mai avrebbe potuto scrivere questa storia. 
Rodari era veramente geniale!

Ho utilizzato molte volte questo raccontino come attività didattica nei miei corsi per illustrare la funzione dell‘h nella pronuncia e nell‘ortografia della lingua italiana. 
A mia volta, anglista emigrata in Germania, ho sempre subito il fascino di queste acca aspirate a inizio parola in contrasto con le nostre acca mute, retaggio della scrittura latina. 
A differenza della diffusa ed erronea credenza per cui l‘acca tedesca sarebbe una consonante forte, da pronunciare con una tonalità quasi esagerata, la “h” è in realtà un leggero sospiro che sembra quasi soffiare sulle lettere successive e sospingerle  a formare una parola più o meno lunga.
Il suono duro, dal ritmo staccato così differente dalla dolcezza del nostro legato, deriva soprattutto dalla combinazione dell‘acca con altre consonanti quali la t, la c, o, peggio, sc all‘interno di una parola. 
Eichhörnchen (scoiattolo, proprio non si addice ad un esserino tanto dolce un nome così brutale!),
machen,  (fare, nel senso del fare materiale)
Schwiegermutter (suocera, effettivamente é spesso un nome antipatico),
Entschuldigung (scusa, davvero una fatica pronunciarla)
Deutsch (tedesco, una conferma….).

La sonorità di Himmel (cielo), hell (chiaro), Hand (mano), Hälfte (metà), e persino Halt (alt, stop, con tutti i suoi derivati, come „halten“, fermare, Verhalten, comportamento, ecc…) implica una morbidezza inaspettata.

La mia preferenza va però alla parola „Heimat“, forse perché di consistenza eterea, così vaga, così ambigua da non essere davvero traducibile in lingua italiana. Nella sua vaghezza anche stupendamente poetica.

In italiano potrebbe essere riconducibile a patria, casa, luogo d’origine, sede, ambiente naturale e molto altro, a seconda del contesto, ma nessuno di questi termini rende veramente l‘idea.

Heimat é molto più di un luogo, anche più di un luogo affettivo come potrebbe essere la „home“ inglese. É un sentimento, o meglio uno stato d‘animo che descrive personali ed individuali percezioni ed esperienze diversissime tra loro.

Può essere associato ad un senso di familiarità e di intimità e calore così come ad una nostalgia (anzi, una Sehnsucht che é un‘altra parola deliziosamente tedesca ed intraducibile in modo letterale) intesa come desiderio di approdo in un nuovo altrove.

Heimat é una parola poliedrica e per questo la amo tanto. Può essere un luogo, una regione, un paesaggio. Può riferirsi a persone che hanno rappresentato un punto di riferimento, un porto sicuro, può essere una lingua, un dialetto, un ricordo a sua volta evocato da un profumo o da un sapore, oppure da una musica. In ogni caso Heimat é il richiamo ad un‘associazione positiva, definisce un senso di appartenenza, il proprio posto nel mondo, che non é  necessariamente un luogo geografico.

A volte la propria Heimat sono le persone con cui condividere idee e valori e non necessariamente comuni esperienze.

Per me Heimat é la rappresentazione grafica di un piede ben fermo in un passato familiare e l‘altro nell‘atto di appoggiarsi ad un terreno nuovo, sconosciuto e da esplorare con fiducia. Una parola in transito, tuttavia accogliente, che lascia al di fuori un ignoto minaccioso.

Si comprende che la ricerca di una Heimat é a volte il percorso di una vita intera. 
Una dimensione spirituale?
Una questione filosofica?
Un‘emergenza politica?
Ognuno ha la propria interpretazione ed il proprio percorso nel variegato cammino della vita.



LIBRO
Leonardo Sciascia affermava che:

"Il libro é una cosa: lo si può mettere su un tavolo e guardarlo soltanto, ma se lo apri e leggi diventa un mondo".


É possibile aggiungere altro ad una definizione così perfetta?
In realtà le citazioni di autorevoli intellettuali sul valore dei libri e della letteratura (o più semplicemente sull‘importanza della lettura) sono innumerevoli e per quanto mi riguarda tutte condivisibili.
Volendo esprimere il senso del mio personale rapporto con il libro, l’associazione immediata é con la sua etimologia:  libro, dal latino liber, che per me richiama in modo istantaneo la parola libero, essere libero, libertà. 
Perché ciò che provo ogni qualvolta mi immergo nella lettura é precisamente un grande senso di libertà. 

É un volo al di là del tanto celebrato qui ed ora, é l‘appropriazione di un universo che sfrontatamente ritengo pensato per me, é l‘immedesimazione in una storia che parla a me e a volte di me, é l‘amicizia stretta con un personaggio che riesce ad esprimere ciò che in me é rimasto imploso, in nuce e che ora improvvisamente prende forma, voce, vita.

Più spesso é lo squarcio di un velo che mi consente di vedere di più e meglio, un arricchimento per l‘anima, un insegnamento di vita, una fonte da cui attingere pensieri e parole purissime. Talvolta un ossimoro, tale e quale lo é la vita stessa: incontrare la bellezza nella capacità di raccontare drammi, emozionare a tutto tondo con il potere di una parola.

Ho un rapporto quasi erotico con il libro: la prima attrazione é l‘impatto visivo con la copertina, l‘ammiccamento con il titolo, cui segue il contatto. Mi piace esplorare con le mani la consistenza dell‘oggetto, il tipo di carta utilizzata all‘esterno (rigida? patinata? ), lo spessore del libro ed il suo peso, rigirandolo tra le dita, per poi delicatamente approcciarmi alle prime pagine, quasi fosse un primo scambio di sguardi tra due individui che vogliono conoscersi. E poi l‘odore! L’incontro con il libro passa necessariamente dallo sfogliare le pagine ed annusarle intensamente.
Tutto questo rituale precede sempre l‘acquisto del libro  e successivamente l‘immersione ed il piacere della lettura. Una sorta di preliminare che mi dà le giuste indicazioni per scongiurare una eventuale delusione. Raramente ho letto libri che non mi sono piaciuti ma, quando é accaduto, li ho accantonati come accade a volte nella vita con le persone, con gli incontri sbagliati. 

Leggendo, ritrovo al contempo me stessa e scopro l‘altro da me. Quando termino la lettura di un buon libro, accanto alla gioia dell‘incontro, della scoperta e del viaggio, provo un retrogusto amaro: é il profondo dispiacere di essere giunta alla fine, come il dolore del distacco, dopo aver condiviso una relazione tanto intima.

Esprimere una preferenza su un autore od un libro é un‘operazione per me impossibile. 
Mi ricorda tanto la domanda che mi veniva posta da alcuni adulti quando ero bambina, in un tempo in cui “pedagogia” era una parola sconosciuta: „A chi vuoi più bene, a mamma o a papà?“
Ogni libro che ho letto ha lasciato la sua traccia. La mia libreria casalinga é il sunto delle varie tappe della mia vita, anzi, ogni libro, letto e poi riletto in momenti successivi, mi ha parlato in modo diverso ed é diventato testimone delle mie diverse fasi evolutive.
Si tratta dunque di dimensioni differenti ma non paragonabili secondo un criterio di preferenza.

La rivoluzione digitale ha aperto la strada a nuove possibilità di lettura. L‘e-book scaricabile e leggibile su uno schermo, da sfogliare con un tocco di dita é un‘innovazione di tutto rispetto ma mi priva di quel contatto completo che solo il cartaceo può offrire e, di conseguenza, delle emozioni che ne fanno parte. Un rapporto freddo ed insensibile per una reazionaria della lettura come me.Al di là del coinvolgimento emotivo, intellettuale e sensoriale, la mia personale attività di lettura implica anche una serie di gesti che per molti potrebbero risultare blasfemi. I miei libri sono tutti molto vissuti, marcati da sottolineature,  a matita sì ma non per questo leggere, parole cerchiate, grandi frecce asimmetriche a riportare l‘attenzione su una frase o un intero periodo, punti esclamativi e qualche punto interrogativo, offensive „orecchiette“ per segnalare pagine particolarmente significative, post-it colorati in luogo di più eleganti segnalibri e via dicendo. Talvolta tra le pagine sono reperibili foglietti con riflessioni spontanee che andavano fermate sulla carta prima di un eventuale dissoluzione. Oppure sbiaditi resti di carte d‘imbarco con inciso il posto a sedere, in ricordo del volo sul quale il libro mi ha accompagnata. 
Facendolo mio, il libro é spesso divenuto il contenitore di una storia nella storia, il racconto tramite oggetti e segni grafici di come ho vissuto la lettura del testo. La narrazione di un groviglio di emozioni che si sono intersecate e sovrapposte al contenuto del libro.Ho avuto occasione di leggere opere in lingua italiana, inglese, francese, spagnola e tedesca. Il rapporto con un testo in lingua originale prevedeva un cambio d‘abito, forse addirittura di pelle. Entravo in punta di piedi, quasi timida al cospetto di sonorità, ambienti, orizzonti a me non del tutto sconosciuti ma pur sempre stranieri, che mi domandavano uno sforzo in più nell‘aprire lo sguardo, la mente, il cuore. C‘era sempre un elemento di fascinazione maggiore in quella geometria di parole il cui respiro aveva un ritmo diverso dal mio e dalle sonorità della mia lingua. Mi veniva presentato un mondo apparentemente nuovo e distante ma calandomi senza resistenze nelle realtà descritte emergeva sempre una finale verità universale, superiore in quanto propria dell‘essere umano senza specificità culturali e territoriali e, ancora più affascinante, oltre i limiti temporali. 
Potenza della letteratura, che in sé contiene l‘eterno.

Se i libri non fossero i veicoli migliori del libero pensiero nessun regime totalitario si preoccuperebbe di adottare la censura e di perseguitare gli scrittori.  

Un buon libro può fare di te un buon lettore. 
É quell‘oggetto magico capace di insegnarti a pensare in modo autonomo e l‘autonomia di pensiero é sinonimo di libertà.
(Non per niente si dice che un bambino che legge sarà un adulto che pensa).

Ecco che nel mio gioco di cerchi concentrici ritorno al concetto di partenza: aprire ed aprirsi alla lettura di un libro equivale, per quanto mi riguarda, a varcare la soglia tra il limite e l‘infinito, l‘immobilismo ed il dinamismo, l‘ordinario e lo straordinario, lo spazio angusto e l‘immensa libertà.


AMORE
A:  nella affascinante complessità della lingua italiana é molto più di una lettera, e non solo per la sua posizione privilegiata che la colloca al primo posto dell‘alfabeto. Ciò é vero anche per molte altre lingue ma già nell‘effetto sonoro della sua pronuncia la A italiana, così aperta, svela una funzione semantica. 
Ai miei studenti tedeschi che cominciavano DI imparare ed andavano IN ristorante PER 
mangiare, tentavo di offrire un diverso sguardo sulle regole grammaticali che in molti contesti prevedono l‘utilizzo della A come preposizione. Ciò che sembra una regola priva di una spiegazione logica  é in realtà l‘indicatore di una precisa intenzione comunicativa: ogni qualvolta mi proietto verso un‘attività nuova o futura sottolineo questa apertura, questo slancio in avanti ricorrendo alla preposizione A
(Comincio a, continuo a, mi spingo a, ecc…)
Allo stesso modo andare al ristorante non ha come unico scopo il mangiare (per mangiare) ma solitamente é un‘occasione di convivialità o una situazione romantica  o talvolta un incontro di lavoro. In sintesi, é un‘attività aperta a possibilità diverse. Dunque vado AL ristorante. 
Si potrebbe avviare un dibattito sul perché si dica al cinema e a teatro. La spiegazione esiste ed é più che plausibile ma mi porterebbe ora a redigere un trattato di grammatica alternativa, “alla Stefania“,  probabilmente noiosissimo,  dilungandomi eccessivamente ed allontanandomi dal cuore del mio testo.

La priorità della lettera A in lingua italiana si manifesta anche nel numero impressionante di parole che incominciano per A, molte delle quali portatrici di significati importanti che richiamano a valori esistenziali, filosofici, estetici… 
Prendendomi un grande rischio, ho scelto di soffermarmi sulla parola AMORE.
Non esiste, credo, parola più utilizzata, abusata, fraintesa, mistificata eppure straordinariamente bella.
Ancora una volta ripenso alla difficoltà dei parlanti tedeschi nel pronunciarla, deturpandone spesso la dolcezza nel non riuscire a produrre un suono aperto sulla a iniziale (la nostra a rotonda diventa una a esile, quasi ossuta), e soprattutto nello stringere la o e la e ad incorniciare una r strozzata che si richiude nel guscio della bocca invece di cinguettare come la nostra erre unita in binomio alla e di fine parola. 
L‘alternativa é quella di esagerare  in modo teatrale ed anche un po‘ goffo la pronuncia della parola, nella convinzione di imitare la parlata italiana autentica. 

In tedesco amore si dice LIEBE. É una parola lenta. 
Quasi a suggerire la necessità di frenare la voce e dare spazio alla riflessione. 
É una parola che dà il tempo per soffermarsi sul significato che esprime, sul suo valore. 

Nella più classica delle dichiarazioni d‘amore, il nostro ti amo diventa ICH LIEBE DICH, ed é interessante che in evidenza sia proprio il verbo (alla prima persona presente uguale al sostantivo), in posizione centrale quale ponte tra i due attori, l‘io ed il tu.

Il TI AMO italiano assume valenze diverse in base all‘intonazione con cui viene pronunciato. Talvolta l‘oggetto d‘amore nell’enfasi con cui é declamato é veramente collocato al primo posto, così come lo é graficamente.
Spesso, ahimè, si fonde all’interno del verbo in un‘unica unità fonetica e sembra perdere il suo valore di esclusività, quasi diventasse marginale o intercambiabile. Un‘onda ripiegata su sé stessa.
Nelle situazioni in cui si vuole dare più forza alla frase l‘accento cade sulla parola IO, a dichiarare quasi la supremazia del soggetto su tutto il resto, l’atto di amare e l’oggetto di amore, in una modalità egocentrica e narcisistica. 

É un‘impresa ardua provare a definire l‘amore, solo grandi scrittori, poeti o autori di canzoni (e non penso a Sanremo)  possono elevarsi a tanto. Da secoli verbalizzano l‘indicibile, regalandoci preziose perle per raccontare l‘estasi, la passione, il dolore e le contraddizioni di questo complicato sentimento.
Nella nostra ordinarietà noi possiamo forse provarlo ma fatichiamo a spiegarlo.

Non a caso la forma più alta e totale d‘amore proviene dal Divino. 
Gesù, “amore a perdere“ secondo una definizione del ribelle Don Gallo, ha predicato, praticato ed incarnato un Amore con la A maiuscola, mostrandoci come amare significhi rischiare, renda vulnerabili alla possibilità di essere delusi, ingannati, traditi ma é anche la sola forza rivoluzionaria che può cambiare l‘uomo ed il mondo. Non  ci ha lasciato slogan politici ma esempi concreti, fino al sacrificio di sé stesso. (“Non esiste amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici“).

A noi umani riesce per lo più un amore con la a minuscola. 
Troppo spesso con convinzione  chiamiamo amore ciò che amore non é. 
Tralasciando le situazioni estreme di amore tossico o amore criminale, aggettivi che stridono perché antitetici al concetto di amore, il nostro più grande problema, a mio avviso, é la confusione che sovente facciamo tra amore e bisogno. In tutte le nostre relazioni: di coppia, di amicizia, familiari, parliamo d‘amore ma in realtà cerchiamo un antidolorifico. Usiamo l‘altro per utilitarismo o per riempire i nostri vuoti e il più delle volte non ce ne rendiamo conto. Proiettiamo su chi dovremmo amare le nostre aspettative a tal punto che, quando un partner, un amico, un figlio, un familiare non corrispondono più al nostro immaginario, entriamo in crisi e li scartiamo. Amiamo una nostra idea di quella persona, non la realtà di quella persona. 

Bisognerebbe poter avere la lucidità necessaria per discernere tra andare incontro alle esigenze dell‘altro, esprimere le proprie, ed avanzare pretese.

Un incredibile paradosso é che la ragione di molti fallimenti o problematicità dei nostri amori deriva dalla mancanza di amore per noi stessi.  Questa condizione dovrebbe essere la base per una sana costruzione di rapporti, invece, ancora una volta, ci ritroviamo spesso a confondere l‘amore di sé con l‘egoismo o il protagonismo. Atteggiamenti che, a loro volta, mascherano e coprono, per lo più inconsciamente, alcune nostre fragilità o ferite. 
Ma quanto siamo complessi!!!

C‘é un‘altra parola che inizia anch‘essa con la lettera a e che indica la condizione imprescindibile perché l‘amore possa manifestarsi, ed é l‘ascolto.  Viviamo in un tempo storico in cui la mancanza d‘amore é parallela all‘incapacità di ascolto. 
Dalle mura domestiche agli ambienti di lavoro fino ai vertici del potere mondiale é il trionfo della parola urlata, del proclama, dell‘asserzione ma l‘impressione é che ormai pochi sappiano o vogliano veramente ascoltare. Un fenomeno sociale a mio modesto parere preoccupante.  Una persona che non si sente ascoltata si sente sola. Gli anziani di oggi forse ne sono l‘esempio più evidente. 
La solitudine é l‘inferno. Quando nessuno ti ascolta é l’inferno. Il peggior inferno possibile é, immagino, sentirsi soli in mezzo alle persone con cui condividi la giornata. Sono fermamente convinta che l‘amore sia ciò che salva da questo inferno.

In questo contesto anche il nostro laboratorio é una meravigliosa forma di comunicazione ed autenticità. Leggendo le nostre storie noi ci ascoltiamo a vicenda con attenzione e rispetto, creando un modello alternativo, un micro-universo dove regnano armonia ed amicizia, consorelle dell‘amore.

Un altro aspetto che non andrebbe mai trascurato per evitare la dissolvenza dei rapporti é la pericolosità dell‘abitudine. Quando la quotidianità si lascia travolgere da rituali sempre uguali senza lasciare più spazio all‘imprevisto, senza lasciar respiro alla sorpresa, quando le persone si danno per scontate, avviene l‘eutanasia dell‘amore.

Esistono a mio parere due ulteriori ingredienti fondamentali perché l‘amore sia tale: la gratuità e la libertà. 
Chi ama, lo fa sempre a fondo perduto, senza aspettare un contraccambio. Diversamente é commercio, non é amore.
La mia ultima considerazione riguarda l‘aspetto che io reputo il più importante di tutti, e che forse ingloba tutti gli altri.
Il rispetto verso la libertà dell‘altro. L‘amore non soffoca, non possiede, non controlla. Al contrario, non solo ti permette di essere te stesso ma ti aiuta a diventare te stesso, perché ti fornisce il terreno fertile per crescere. 

Mi é sempre piaciuto pensare all‘amore come ad un grande, solido tempio, sostenuto principalmente da due colonne portanti e decorato da un lungo colonnato. 
La condizione per cui il tempio regga agli insulti della vita é che ogni singolo sia colonna, in grado di sostenersi da sola, senza appoggiarsi creando il rischio di un crollo. 
Ma solo con l‘apporto di una seconda colonna, ugualmente stabile e forte, é possibile la costruzione di un tempio. 

Concludo con un messaggio di speranza e di profonda fiducia nella potenza salvifica dell‘amore:
Amor vincit omnia.
L‘amore vince ogni cosa.



ZIG ZAG
Ho una predilezione per le parole onomatopeiche. Mi divertono, le trovo un simpatico prodotto di un gioco infantile in cui fanno amicizia i suoni della realtà con i suoni della lingua. Nella mia personalissima graduatoria occupa un posto di rilievo una parola che a dire il vero non riproduce una sonorità esistente ma simboleggia un’ idea di movimento, ed é l‘espressione ZIG ZAG.

Per poterla descrivere meglio mi viene incontro l’Enciclopedia Treccani, che mi suggerisce una terminologia più appropriata: zig zag é un esempio, in lingua italiana, di ideofono, cioè un uso potenziato di onomatopea. 
Semplificando la specificità del linguaggio fonetico e fonologico, é comunque interessante osservare come il suono ZETAraffigura un moto rapido (come in zip), l‘alternanza delle vocali I - A suggerisce l‘alternanza di due direzioni diverse (come in tic-tac) la G finale il fatto che questo cambio di traiettoria é spigoloso e non sinuoso“. 

Un‘affascinante descrizione di un movimento autobiografico.
Zig zag, infatti, riassume e comprime in un suono il cammino della mia esistenza.

Il mio primo zig zag, in realtà, coincide con il cambiamento obbligatorio di direzione che la mia nascita ha provocato all‘interno della mia famiglia, fino a quel momento caratterizzata da una dominante presenza maschile (ho due fratelli e sei cugini maschi), costringendo tutti i componenti a rapportarsi con l‘effetto sorpresa di una presenza femminile in squadra. 

Il mio percorso evolutivo, dall‘infanzia all‘adolescenza fino all‘età adulta, é stato tutto uno “zigzagare“ tra due mentalità che in me convivevano, tra una sensibilità maschile ed una sensibilità femminile, tra due modalità spesso opposte di approcciarsi al reale e di interpretare la vita.
Pur rivendicando, sin da piccola, con fermezza ed anche con un certo orgoglio la mia identità femminile, sentivo di incorporare due visioni del mondo che spesso faticavano a parlarsi, allora come oggi e direi da Adamo ed Eva in poi. Io capivo le ragioni di entrambi ma in alternanza, a zig zag.

Anche il mio senso di appartenenza territoriale, di cultura e di tradizioni, vacillava tra due realtà geografiche distanti. Da una parte, Torino ed il Piemonte, terra in cui ero nata e stavo crescendo, dall‘altra il paesino calabrese affacciato sullo Stretto di Messina, luogo delle origini e degli immancabili ritorni ad ogni estate, tra le braccia di una grande famiglia accogliente. 
Una lontananza effettiva, talvolta affettiva. Anche l‘affetto, tuttavia, virava di scatto, a volte si dirigeva verso i confini della mia formazione personale e culturale, a volte invertiva il senso di marcia al forte richiamo del sangue. Un po‘ a zig verso l‘ambiente che mi nutriva con ingredienti esistenziali, un po‘ a zag verso la terra che custodiva le mie radici, deputate al mio nutrimento morale e sentimentale.

Il verbo “essere“ in italiano sfiora la dimensione filosofica. L‘essere, per l‘appunto. Un verbo che connota strettamente l‘identità. 
Il genere ed il numero dell‘aggettivo che segue dipende dall‘identità del soggetto. Uomo, donna, individuo o collettività. 
Sono nato, sono nata, siamo nati, siamo nate.
Anche l’ origine geografica (Nazione o regione) si esprime con il ricorso al verbo essere, seguito, per l‘appunto, da un aggettivo che cambia in genere e numero. 
Io chi ero?
Bussava insistente la mia domanda esistenziale: “sono torinese? sono calabrese?”
e per un gioco beffardo entrambi gli aggettivi terminavano in -e, sia al femminile che al maschile.  Sono DI Torino o DI Cannitello? Traducibile in DI CHI SONO? Cioè a chi appartengo? A seconda delle circostanze, dei contesti e dei momenti, ad una o all’altro, un po‘ di qua e un po‘ di là. Ancora una volta, a capire le ragioni di entrambi. 

Con queste premesse era piuttosto prevedibile che tutto il mio percorso successivo non sarebbe potuto essere lineare.

Chissà se é un caso: nel breve periodo in cui ho preso lezioni di sci non ho mai amato le discese a sci uniti e paralleli, preferivo le curve a spazzaneve, con le punte che si toccavano e le code aperte, decisamente uno stile meno armonioso e regolare, da principiante delle piste.

Avevo interrotto gli studi di pianoforte incominciati da bambina, insofferente agli insopportabili solfeggi al ritmo di metronomo, 
certa di imparare da autodidatta a suonare la chitarra, strumento che non ho mai toccato in vita mia. 

Ho effettuato il mio percorso di studi fino 
all’ esame di maturità in modo costante ma sviluppando un carattere che virava dalla pacatezza di una personalità riflessiva alle spigolosità di un‘anima ribelle, sterzando di colpo dalla tradizione alla trasgressione.

Già giovanissima prendevo le distanze dal pensiero comune ma poi non sapevo dove andare con le mie incertezze e allora cercavo risposte provando a camminare sul lato opposto della strada, che attraversavo in diagonale, mai ferma all‘incrocio ad aspettare il verde di un metaforico semaforo.

Fin qui, credo, nulla di diverso dalle normali intemperanze della giovane età, da cui probabilmente solo pochi sono esenti.
Al termine del liceo, però, decisi di rompere con la continuità degli studi e mi lanciai subito nel mondo del lavoro. Tentai la mia fortuna come hostess di congressi internazionali, mentre le mie amicizie più care si erano avviate sul percorso lineare degli studi universitari. 

Proprio non riuscivo a restare salda su un unico binario, la varietà del lavoro che mi trovavo a svolgere sembrava soddisfare appieno le mie esigenze di lontananza dalla consuetudine. 
Ben presto, però, ho avvertito la necessità di virare verso un‘attività più rassicurante e mi sono ritrovata, senza piena consapevolezza del mio movimento azzardato, tra le pareti di un ufficio di una grande multinazionale. Ero là dove non sarei mai voluta essere.
La manovra successiva non si é fatta attendere a lungo: più che un movimento a zig zag é stata una vera e propria inversione a U per raggiungere il più in fretta possibile le aule universitarie e tornare a respirare l‘aria buona della cultura, non senza la fatica di ritrovare un qualche senso dell’ orientamento.

Tra i libri mi sentivo a mio agio ma non per questo il mio passo esistenziale riusciva ad essere cadenzato, ritmato, scandito. 
Mi mancava una visione univoca della realtà, né la volevo acquisire. 
Avevo amicizie eterogenee, frequentazioni a seconda degli umori del momento, pur senza trascurare nessuno. 

Coltivavo una spiritualità dal movimento tellurico, in politica avevo più ideali che idee, e nessun partito da cui mi sentissi rappresentata.

Nel mio piano di studi convivevano le materie più disparate, sceglievo i programmi complementari passando da storia delle religioni a letteratura italiana a psicologia.

Viaggiavo all‘estero ma non sentivo appartenenza a nessun luogo.

Dopo la laurea, un nuovo strappo improvviso con il trasferimento in Germania,  ma anche qui le inversioni di rotta sono proseguite, come una sorta di mantra a scandire le mie aritmie. 

Forse proprio l‘assenza di una traiettoria, di una visione univoca e rettilinea ha favorito l‘insorgenza del mio nomadismo, più una dimensione dell‘anima che un vagabondaggio effettivo. Non so se sia un pregio o un difetto, un vantaggio o uno svantaggio ed anche ora, nel tentativo di dare una definizione, oscillo un po‘ a zig e un po‘ a zag tra due opposti.
Di certo i miei improvvisi cambiamenti di direzione denotano una curiosità che si bea nel perdere l‘orientamento, nonostante lo struggente desiderio di arrivare comunque ad una vetta. 

Perdersi ha un suo fascino e consente approdi forse preclusi a chi sceglie un sentiero battuto ma é altamente rischioso. Sono tante le nebbie, i dirupi o le tempeste che chi é consapevole della propria rotta riesce più agevolmente a contrastare. 

Poco oltre il “mezzo del cammin di nostra vita”, credo di aver finalmente raggiunto il mio squilibrato equilibrio nel procedere in avanti.
Oggi non é più un immagine simbolica, é un realissimo muovermi a zig zag tra i meandri di questa vita potente, sostenuta da due stampelle, dalle persone che ho nel cuore, dalle meraviglie del creato, dalla poesia delle piccole cose.

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