Giuseppe

Busan – Corea del Sud
1992-1993

Ero in procinto di chiudere un progetto in Corea del Sud a Ulsan, la città della Hyundai, quando il mio direttore della consociata californiana mi comunica che l’anno dopo sarei tornato in Corea,  

Busan  megalopoli di 5 milioni di abitanti, il più grande porto del sud-est asiatico per lo smistamento di containers, per assumere la direzione di un cantiere ben più grande e per me del tutto nuovo: una linea di verniciatura per nastro d’acciaio.

Per intenderci si trattava di un bestione lungo quasi 200 m, con due torri d’accumulo alte 16 m, una struttura metallica del peso di circa 150 T, progettata per processare bobine di acciaio del peso di 12 T, sgrassarle in una sezione chimica, applicare un velo chimico con la funzione di aggrappante, verniciarle allo spessore desiderato, cuocerle in forni a gas alla temperatura di 250-350 °C e riavvolgerle su un aspo, processo realizzato in continuo, per sfornare un semilavorato pronto per le lavorazioni successive di formatura, piegatura, taglio in formati e longitudinale.

L’obiettivo era di alimentare l’industria edile e degli elettrodomestici, cantieristica stradale e navale, settori famelici in quel periodo di sviluppo vorticoso del Paese, che stava subendo profonde trasformazioni, abbandonando l’economia rurale tradizionale, per assumere le sembianze di una società capitalistica, con la creazione di una borghesia media, una classe dirigente istruita (da consulenti americani) e che si manifestava in una corsa al consumismo compulsivo rivolto agli status symbol tipici, l’auto Hyundai, l’appartamento finalmente grande, dotato di tutti i dispositivi che rendono la vita più confortevole.

Insomma, un boom economico di stile italiano anni ’60, ma compattato in un numero ridottissimo di anni.

Purtroppo, non per tutti, alcune fasce sociali non erano state invitate alla festa, come ad esempio i contadini e gli operai. La conseguenza era la creazione di una dicotomia, fra coloro che potevano accedere al benessere e le fasce deboli che vedevano aumentare la distanza tra le classi sociali, e che iniziavano ad organizzare i primi scioperi di rivendicazione salariale e di condizioni migliori di lavoro. Nulla a che vedere con ciò che era accaduto in Italia, nella nostra fabbrica lo sciopero si traduceva in mezzora di sit-in con bandana rossa in testa e slogan cantati con tono garbato.

Per me osservatore esterno nuotare in questo brodo primordiale significava assistere ad una sovrapposizione di due mondi antitetici, un grande schermo su cui venivano proiettati in contemporanea due film girati in epoche distantissime, in pratica era come vivere una contrazione della scala del tempo.

La città brulicava di auto di ultimo modello, gli adolescenti si abbandonavano ai grassi saturi dei fast food USA riempiendosi la faccia di brufoli, i negozi di abbigliamento scimmiottavano i nomi delle grandi firme europee (io stesso ho calzato un paio di scarpe di grido firmate Salvatore Fellagamo), mentre a distanza di 10 km dalla città le donne vestivano i costumi tradizionali di seta dai variegati colori pastello e lavavano i panni al fiume. Ma l’atmosfera era pervasa da grande fermento accompagnato da sorrisi gentili e sguardi rivolti in avanti, nutriti dalla solida certezza di una prospettiva di miglioramento delle condizioni di vita.

Il modello di riferimento sociale ed economico rimaneva il Giappone, nonostante verso quel Paese i coreani nutrissero un rapporto ambiguo di amore-odio, a causa delle atrocità commesse dai giapponesi, a seguito dell’annessione imposta nel 1910 e protrattasi fino alla loro resa agli alleati nel 1945.

In fabbrica questo modello si traduceva in una rigorosa organizzazione gerarchica, che si evidenziava anche nell’abbigliamento: tute di colore grigio sbiadito per i livelli inferiori, azzurro vivace per i capi squadra. Anche sugli elmetti di protezione venivano applicate strisce di nastro nero in numero e larghezza diverse, a seconda del grado di funzione e responsabilità.


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Ma ciò non spegneva il loro innato approccio umano, a volte un po’ invadente ma spontaneo, misto della tipica cortesia di maniera orientale arricchito da una connotazione specifica di contatto fisico in stile mediterraneo.

Ricordo nei primi giorni la loro sorpresa nel vedere uomini ricoperti di barbe e braccia pelose, che avevano destato talmente tanta curiosità da creare assembramenti per poter toccare quelle strane creature.

Per quanto riguardava il mio compito, non nascondo che all’inizio pizzicavano le farfalle nello stomaco, sia per la magnitudo del progetto, che per la novità assoluta di quel tipo di impianto. Per di più l’ordine era stato acquisito dalla nostra società sorella con sede a San Diego in California; quindi, le macchine e gli impianti sarebbero stati tutti di fornitura USA e di conseguenza il personale di cantiere per la messa in servizio sarebbe giunto da diversi stati degli USA, da coordinare e far dialogare perché il lavoro procedesse nei tempi programmati, in poche parole come si direbbe a Harvard “A pain in the ass”.

In effetti la realtà si è rivelata più ardua delle previsioni, per superare lo scoglio culturale e linguistico nel mediare le differenze tra tecnici di Pittsburgh e loro colleghi di Atlanta o di altri stati del sud ed affrontare in modo diplomatico il rapporto tra loro ed i punti di vista del cliente. Non sono mancati siparietti divertenti con tecnici inglesi dalla pronuncia ortodossa, che chiedevano a me la traduzione di quanto detto dai tecnici USA.

Ci è voluto un anno intero, con due viaggi intermedi in Giappone per rinnovare i visti di ingresso in Corea, ma alla fine il progetto si è concluso positivamente con la cerimonia di inaugurazione in grande stile e la benedizione della linea con sangue di maiale spalmato sulle colonne metalliche, in segno beneaugurante per scacciare il rischio di incidenti mortali. Le giornate di lavoro si protraevano fino a tardo pomeriggio, ma nelle poche ore libere venivamo contagiati dall’atmosfera vibrante del quartiere dove eravamo alloggiati in un hotel affacciato sul mare del Giappone. All’imbrunire sul lungomare antistante la spiaggia di Haeundae lunga oltre un chilometro, nascevano improvvisamente innumerevoli gazebo e tende, nei quali venivano servite le leccornie della cucina locale di mare, mantenute in piccoli acquari alimentati da generatori per garantire la freschezza in acqua corrente, affettati a crudo e accompagnati con salsine di rafano e peperoncino piccante.

Ricordo i tentacoli di un polpo con terminazioni nervose ancora vive, che cercavano di fuggire in tutte le direzioni al di fuori del piatto di portata. Invece i vermi di fondale tinta sabbia non manifestavano le stesse velleità di fuga, infatti venivano serviti interi. Certamente la birra contribuiva a superare le remore sulla crudeltà del servizio e sulla qualità del cibo, così distante dai nostri gusti.

In effetti di tutti i Paesi asiatici che ho visitato, la Corea è quello che può vantare la cucina più povera in assoluto. Riso con verdure cucinati nel wok, la classica pentola di origine cinese di forma semisferica, Bolgoghi ovvero straccetti di carne grigliati su bracieri posizionati a centro tavola, perché i commensali potessero servirsi direttamente in spirito di condivisione e armonia. Tuttavia una menzione speciale merita il piatto nazionale, chiamato Kimchi. I semplici ingredienti sono foglie di cavolo cinese, aglio sale e peperoncino, disposti a strati sovrapposti e lasciati a fermentare in una salsa di pesce in otri di terracotta per i mesi invernali, in modo da assumere il caratteristico aroma di composto marcio, l’assaggio ne confermava l’impressione olfattiva. Ma i coreani ne sono talmente orgogliosi, che qualche anno dopo nel 1996 ne avrebbero preteso l’esportazione massiccia in USA, in occasione delle olimpiadi di Atlanta come piatto irrinunciabile per i loro atleti, sfiorando l’incidente diplomatico al diniego delle autorità doganali USA, che alla fine si sarebbero arrese alle richieste insistenti del Paese alleato.

In questo contrasto epocale di stili di vita, era sopravvissuta l’istituzione del mercato rionale di strada, grazie all’attitudine innata dei popoli orientali al commercio. Ne esistevano numerosi nella metropoli, uno dei più pittoreschi, fornito di ogni varietà di articoli di vari generi era quello di Gukje. In effetti per estensione si trattava di un quartiere all’interno del quartiere, a pianta squadrata sul modello di campo militare, suddiviso in riquadri ciascuno dei quali specializzato in determinati articoli, dai generi alimentari all’abbigliamento artigianale in pellame.


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In questo pentolone ribollente di scambi commerciali, anche per noi occidentali era inevitabile essere coinvolti in trattative serratissime all’ultimo Won, consuetudine pretesa dai commercianti stessi e che in più occasioni si concludeva con l’applauso convinto di un uditorio radunatosi per valutare le stoccate dei contendenti.

Nei rari momenti di pausa, la fatica poteva essere lenita in piccoli locali, in cui si poteva gustare la birra locale Heite o Cass, accompagnata da bocconcini di seppia essiccata, dal gusto elastico e deciso. I più temerari potevano sorseggiare il Soju, il liquore nazionale, in pratica un distillato di riso di gradazione 20% vol., ma dal gusto invasivo. Tuttavia diluito nella birra aumentava le probabilità di sopravvivere e di non mandare messaggi patetici ai propri ex.

Faceva da contraltare alla confusione ed ai decibel prepotenti dei mercati rionali, l’ambiente ovattato e le luci soffuse delle sale da the, che ho avuto la fortuna di frequentare in compagnia di pittori scultori e altri artisti locali, introdotto in questo ambiente privato da un pittore in voga, che ho conosciuto per caso una sera sotto lo stesso gazebo sul lungomare, divertito dalla mia riluttanza a consumare vermi di fondale o pomodori di mare dal profumo combinato di acque nere a pesce marcio.

In una città in cui era impossibile soffrire di solitudine, era gradevole trascorrere alcune ore in un ambiente rilassato, ed assistere a conversazioni dotte (almeno così sosteneva il mio amico pittore), pronunciate con voce sommessa. Unico rammarico lo scarso grado di partecipazione a causa dei miei limiti di conoscenza della lingua coreana. Ma l’atmosfera era amichevole, il the al sesamo aveva un aroma particolare ma piacevole, soprattutto perché servito con il rituale tradizionale ricco di gesti forse troppo cerimoniosi, ma maledettamente affascinanti per un occidentale frullato nell’economia del libero mercato.

Di quella esperienza conservo alcuni quadri ad acquerello realizzati dal mio amico, che raffigurano scene di natura pura, in evidenza acqua scrosciante e condensata in nuvole filanti, che abbracciano colline impervie ricoperte di vegetazione lussureggiante, espressa nei toni soffusi di verde e di grigio, una sintesi traboccante di armonia e di sensibilità.

Ma nel mio baule dei ricordi ho trovato anche le domeniche trascorse nei templi buddisti, arrampicati nella quiete di luoghi appartati, sempre in presenza di corsi d’acqua, raggiungibili rigorosamente a piedi, quasi in pellegrinaggio, ma festoso e sereno, fino alla soglia del tempio di fronte al braciere degli incensi, a partire dal quale l’atmosfera mutava in misticismo, che raggiungeva l’apice all’interno della sala delle preghiere, un anelito universale oltre e al di sopra di ogni credo.

In conclusione, i due anni trascorsi in Corea sono impressi in modo significativo tra le mie esperienze di vita, una grande palestra per esercitare la comprensione di culture lontane, aprire la mente a prospettive diverse dai canoni occidentali, privilegiare gli aspetti comuni anziché stigmatizzare le differenze, ad eccezione del kimchi ovviamente.



10 gennaio 2023
CHENG DU – CAPO CANTIERE - CINA
1995-1997


Sono arrivato a Cheng-du per la prima volta a luglio 1995, in un’estate calda e piovosa.

Era trascorsa una sola settimana dal rientro dalla Siberia, dove avevo trascorso quasi due anni in un cantiere molto impegnativo.

Avevo affrontato il viaggio di ritorno sotto la neve, per cui l’arrivo in una zona tropicale era un cambiamento meteorologico epocale, oltre che culturale e professionale.

Non ero nello stato d’animo migliore, perché sognavo di godermi una meritata vacanza, prima di affrontare una nuova sfida, ma la curiosità intellettuale di vivere un’esperienza in Cina, un Paese nuovo e così ricco di fascino aveva preso il sopravvento.

Mi era stata assegnata la mansione di capo cantiere in due impianti distinti, situati a tre ore di volo e 12 ore di treno l’uno dall’altro, entrambi destinati alla produzione di alluminio.

Il più grosso comprendeva due colate continue quattro laminatoi oltre ad altri macchinari accessori e sarebbe stato uno dei primi in Cina per la produzione di foglio sottile, impiegato nell’industria degli incarti latte UHT.

Quando si dice sottile s’intende esattamente questo, 6,5 millesimi di millimetro, più sottile dello spessore di un capello, che usciva dal laminatoio a 1000 m/min, velocità ragguardevole per quell’epoca.

Il più piccolo era costituito da due colate continue tipo speed caster, cioè in grado di produrre ad una velocità superiore alle macchine fino ad allora in uso nell’industria del settore.

I rotoli laminati allo spessore desiderato passano nei reparti di finitura, dove vengono ulteriormente lavorati per diventare vaschette, blister per pastiglie, rotolini CUKI che usiamo in cucina, ed i 6,5 micron il foglio che viene accoppiato con politene e carta per formare il cartoccio di latte UHT, che richiede la presenza di un foglio di alluminio per effettuare la saldatura ermetica.

I rotolini meritano una menzione speciale: avete notato che una superficie è opaca e quella opposta lucida?

La superficie opaca è quella che nella laminazione doppia rimane all’interno dei fogli sovrapposti; quindi, non viene a contatto col liquido di raffreddamento dei rulli di laminazione, costituito da cherosene additivato. Mi raccomando quindi di avvolgere i cibi nella parte opaca per maggiore sicurezza.

Tornando alla storia, entrambi gli impianti erano in stato avanzato di montaggio sotto la supervisione di personale specializzato della azienda per cui lavoravo. Il mio compito consisteva nella gestione del personale, perché le fasi di montaggio e conseguente messa in servizio fossero realizzati nei tempi e nei costi programmati, fino ad ottenere l’accettazione da parte dei clienti dopo l’esecuzione dei test di produzione e di qualità.

Avrei fatto base presso il sito più grosso, con sopralluoghi mensili presso l’impianto più piccolo, a meno di imprevisti che avessero richiesto interventi specifici a più breve scadenza.

Il progetto si è protratto per circa un anno e mezzo, con alterne fortune, momenti di progresso importante, altri di inconvenienti che ne hanno rallentato la conclusione, avvenuta nella primavera del 1997 con una grande cerimonia di inaugurazione presente l’allora ministro del commercio con l’estero Augusto Fantozzi.

Ciò mi ha permesso di vivere un’esperienza professionale senza uguali, ma soprattutto di condividere la realtà umana e sociale di un Paese che stava profondamente cambiando sotto i miei occhi, guidato dalla spinta riformatrice del leader Jiang Zemin, salito ai vertici del potere del PCC all’indomani dei tragici eventi di Piazza Tienanmen e che aveva assunto la presidenza del Paese nel 1993.


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Avevo coltivato grandi aspettative verso questo Paese, che il nostro immaginario dipinge come la patria di Confucio, fucina di arte, cultura, medicina alternativa, gastronomia, seta pregiata e tanto altro.

Ma il primo impatto è stato ostile, Cheng-du è la capitale del Sichuan, una regione molto conservativa e legata indissolubilmente al culto di Mao, quindi molto chiusa alla diversità. Il sobborgo dove era stato dislocato l’insediamento industriale era un’area prevalentemente rurale, il paese pullulava di piccoli esercizi commerciali a conduzione familiare, aperti come appendice delle abitazioni stesse.

Poche automobili private sulle strade, che brulicavano di biciclette, risciò, taxi, pulmini per trasporto collettivo, carri trainati da animali, camion sovraccarichi di ogni sorta di merce. La strada principale che collegava il paese alla capitale era talmente affollata, che richiedeva circa 2 ore per percorrere poco più di 20 km.

La nostra squadra di tecnici, primi occidentali ad abitarla anche se per un periodo limitato, era apostrofata e additata ovunque come laowai, gli stranieri in senso spregiativo. Ricordo che spesso provocavamo ingorghi stradali davanti ai negozi, perché pedoni macchine risciò si fermavamo per osservare quelle strane creature con le braccia pelose. Quando i commercianti si sono resi conti che eravamo una buona fonte di reddito, il rapporto si è trasformato in una gentilezza smisurata, fastidiosa, che però ci ha reso le cose più facili.

D’altra parte, rimangono scolpite nella memoria cartoline di un mondo che tramandava la tradizione e che in pochi anni sarebbe stato spazzato dal nuovo corso economico e sociale, sacrificato all’economia di mercato di scuola cinese, forse più brutale del liberismo dei Paesi occidentali.

Conservo fotografie sbiadite di quelle attività ormai dimenticate: contadini che arano il loro piccolo appezzamento di terreno con l’aratro trainato da una coppia di bufali; parrucchieri di strada che dispongono il loro banchetto lungo i viali alberati, il riso steso su stuoie di canapa lungo il ciglio della strada, perché i camion di passaggio lo calpestassero per separare la pula; anziani che praticano il Qi Gong in gruppo nei giardini e nelle poche aree verdi del paese.

Una menzione speciale merita il quartiere del mercato, suddiviso geometricamente per categorie commerciali, che si esercitano in parte al chiuso, in parte all’aperto lungo la strada che si snoda tra le botteghe.

Nei bassi fabbricati con tetti di coppi di colore nero e pavimento in terra battuta gli artigiani lavorano con mani esperte la ceramica, per produrre vasellame di ogni foggia e dimensione richiamando i temi delle varie dinastie del passato, o dipingono le superfici interne di piccole bottiglie con scene tradizionali, usando pennelli sottilissimi ed un’abilità da mozzare il fiato.

All’esterno si commerciano frutti e vegetali rigorosamente locali, alcuni dei quali possiamo trovare oggi nei nostri mercati, ma che allora erano a noi totalmente sconosciuti. La colonna sonora è costituita dai richiami dei commercianti, dal canto di migliaia di uccelli in mostra in gabbiette di legno.

Ma i dettami del governo centrale non si possono discutere, vanno presi alla lettera. Ne sono un insegnamento la stretta militare e la colonizzazione forzata del vicino Tibet o l’eco giunta fino a noi di sommosse e attentati dinamitardi nella remota provincia del Xinjiang a maggioranza mussulmana, soffocate dall’intervento militare.

Perciò il quartiere dei mercatini è stato raso al suolo e sostituito con moderni grattacieli e centri commerciali, è stato inaugurato il primo Hotel Holiday Inn di oltre 30 piani, in soli 8 mesi dall’inizio dello scavo delle fondamenta, la strada affollata di collegamento alla capitale è diventata un’autostrada a 3 corsie per senso di marcia, solcata da automobili private e SUV all’ultima moda, l’aeroporto che era assimilabile ad una baracca con pista annessa è stato trasformato in una moderna struttura di architettura avveniristica in granito vetro e  alluminio, paragonabile all’aeroporto di Monaco di Baviera.

Ho assistito alla proliferazione di banche private, mentre i notiziari TV passavano ossessivamente ogni giorno gli incontri di Jiang Zemin con delegazioni straniere, molte di Paesi europei, per firmare accordi commerciali per la costruzione di siti industriali di vari settori con tecnologia allo stato dell’arte, premessa del fenomeno che oggi chiamiamo delocalizzazione.


Data: 8-02-2023
Giuseppe BAMBACE
CORSO DI SCRITTURA – LETTERA G
GENERAZIONE DI TRANSITO


Sono nato nel ’59 ed appartengo ad una GENERAZIONE di transito, bambino negli anni ’60, ragazzo nei ’70, adulto con le prime responsabilità negli ’80.

Avevo avvertito il forte sospetto di questa sindrome di Caronte già durante l’università, quando ho maturato la consapevolezza che fosse terminata l’era dell’ingegnere col regolo, ma nessuno aveva ancora percezione da quali strumenti sarebbe stato sostituito in futuro.

In realtà le prime avvisaglie di eventi che avrebbero segnato la storia si erano manifestate qualche anno prima, ma ero ancora un adolescente saldo sulle certezze sedimentate fin dall’infanzia, per leggere quale valenza sociale ed economica avrebbero avuto a breve.

Vivevo quasi con gioioso stupore le conseguenze della cosiddetta austerity del ‘73, le domeniche a piedi passeggiando per il borgo con papà ed i miei fratelli, in attesa di riunirci a mamma, che già si adoperava ai fornelli per cucinare il risotto della domenica seguito indissolubilmente dal bollito.

Incrociando il passo, le persone si scambiavano sorrisi educati, anche se gli sguardi tradivano una leggera inquietudine nel vivere una situazione del tutto nuova, come un vago presagio che le certezze consolidate nel decennio di progresso vorticoso stessero vacillando, senza tuttavia intravedere un modello sostitutivo dell’ordine sociale ed economico costituito fino ad allora.

L’entusiasmo collettivo derivante dall’inizio delle trasmissioni della tv a colori nel ’76 non riusciva a compensare il sentimento di paura che si era ormai impadronito delle coscienze con l’acuirsi dell’offensiva delle BR e altri gruppi estremisti, culminato con l’omicidio di Aldo Moro due anni dopo.

Avevo 19 anni in quell’anno ed anche io vivevo un certo smarrimento nel clima che aveva attanagliato Torino, reale coprifuoco che aveva spazzato la dolcezza dell’infanzia e la ricerca di nuove certezze dell’adolescenza, animato da sentimenti contrastanti, fatti di impegno sociale ma anche di contestazione dei valori tradizionali.

Una dicotomia logorante, una sensazione di sospensione in un territorio ancora inesplorato, alimentato da un anelito anche ingenuo di partecipazione alla costruzione di nuovi ideali, ma lacerato da dubbi esistenziali. La musica fedele compagna di questo percorso, la grande creatività delle varie sfumature del rock fonte di ispirazione e di consolazione nei momenti di fragilità.

Nel suo pragmatismo e lungimiranza, nel ’74 papà aveva risolto queste incertezze, sentenziando “cammini in bilico tra il convento francescano e le molotov; quindi ti ho iscritto in collegio”.

Gli anni ’80 hanno portato grandi cambiamenti per me, trasformato in soli 14 mesi da studente nullatenente a carico della famiglia a laureato, congedato dal servizio militare, capo famiglia, impiegato ed aperto al mondo delle trasferte di cantiere in luoghi remoti oltre la cortina di ferro. I dubbi del decennio precedente erano stati finalmente fugati da una brezza di ottimismo nel futuro.

In realtà i cambiamenti erano già in atto, in un processo inarrestabile ricoperto solo da un velo illusorio e confortevole di pace sociale e di benessere economico.

Il sentimento di sospensione è tornato con prepotenza quando il decennio del tutto è possibile, è stato annientato dalla prima crisi finanziaria e dal conseguente declino economico.

I cambiamenti politici epocali degli anni a venire hanno contribuito ad acuire il senso di incertezza e minare quella illusione di stabilità faticosamente costruita negli anni ’80.


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Nei miei 30 anni ho assistito alla caduta del muro di Berlino nel 1989, la bandiera falce e martello ammainata sul Cremlino a dicembre 1991, naturale conseguenza della proclamazione di indipendenza degli stati appartenenti all’URSS, ed il ritorno della guerra in Europa nella regione dei Balcani.

In effetti dalle macerie del socialismo reale e del collettivismo da un lato, del capitalismo e della religione del libero mercato dall’altro non sono nati modelli alternativi, se non il brodo primordiale della globalizzazione e le conseguenti sperequazioni sociali nonché la crescita di potere in mano a grosse corporazioni finanziarie, che ci hanno regalato un’ulteriore pesante crisi nel 2008, alla soglia dei miei 50 anni.

Al di là di questi aspetti globali, se analizzo gli aspetti maggiormente legati alla vita quotidiana, credo che la mia generazione possa vantare una certa resilienza a cambiamenti epocali, avvenuti a velocità superiore alla capacità di adattamento degli esseri viventi presenti in natura.

Penso alle comunicazioni, soprattutto telefoniche, alla nascita di internet e dei social networks; alla digitalizzazione nel rapporto con la pubblica amministrazione, il commercialista, le banche per citare le principali.

Penso all’evoluzione della scuola pedagogica, che ha creato la prima generazione educata ad ascoltare i figli, mantenendo comunque il ruolo di garante e guida, ma anche di amico. Tutto questo fardello senza fornirci un manuale di uso e manutenzione.

Penso che siamo l’ultima generazione coi ricordi in bianco nero, che affollano scaffali, tavoli e ripiani nel salotto buono e riempiono scatole di metallo negli angoli segreti della casa.

Infine, ma non per ultimo temo che saremo l’ultima generazione che si occupa dei propri genitori, perché abbiamo scolpito i sentimenti universali che ci hanno insegnato, quali riconoscenza e senso del dovere, per quanto ci hanno trasmesso interiormente ed il benessere materiale che ci hanno regalato dopo soli dieci anni dalla conclusione della guerra.

Secondo gli analisti, la prossima generazione sarà la prima a vivere peggio di quella precedente nell’era

moderna. Previsione purtroppo attendibile, ma i sessantenni di oggi che hanno subito tutti i cambiamenti degli ultimi 40 anni non bussano alla porta degli studi di psicologi e psichiatri, pur essendo maggiormente esposti dal punto di vista emotivo e psicologico.

In conclusione, non esiste una ricetta universale per curare il mal di transito, unica certezza è che l’utopia è inesorabilmente compromessa. Potrebbe essere rivitalizzata dall’avvento di un nuovo umanesimo, ipotesi che oggi appare alquanto improbabile.

Personalmente sono affezionato alla soluzione elaborata dal tenente del film Mediterraneo, quando sulla zattera su cui gli inglesi lo stanno rimpatriando dall’isoletta greca su cui ha vissuto 3 anni con un drappello di soldati, risponde ad un sottoposto che lo invita a credere che il paese sarebbe stato ricostruito con giustizia rivolgendogli un’espressione disincantata “dammi un’oliva va”.



Data: 20-02-2023
Giuseppe BAMBACE
CORSO DI SCRITTURA – LETTERA I
IL MIO INFINITO


Mi ha sempre affascinato il simbolo con cui convenzionalmente indichiamo l’infinito, mi appare come un numero 8 coricato, un simbolo iconico che evoca una figura dormiente. Non ne argomenterò le origini formulate da Mr. John Wallis, né disserterò sulla cronologia dei reperti, in cui è simboleggiato. Ne ho dato una sintesi della mia esperienza, delle circostanze in cui l’ho intuito, conosciuto, meditato, interpretato.

Sensazione inconsapevole nei miei giochi di bambino, ricordo l’attrazione ipnotica che esercitavano su di me le macchinine Polycar costrette nel solco che si snodava lungo la pista a forma di 8, senza una via di fuga, non una griglia di partenza né una bandiera a scacchi di arrivo.

Anche nell’esercizio scolastico della coniugazione dei verbi, ero ammirato dall’idea che l’infinito esprima un modo indefinito, senza rendere esplicito un tempo o le persone che agiscono nel verbo. Non una modalità sbiadita di comunicazione quindi, al contrario le radici su cui sviluppare il tronco, da cui ripartire rami e foglie, per dare vita e combinare molteplici forme di espressione scritta.

Appassionato da sempre di matematica, mi colpisce la potenza simbolica che infinito indichi una grandezza illimitatamente grande o che può essere fatta crescere in modo illimitato, come la definisce Treccani. Che magnifica dimensione, senza catalogo o etichetta, non può essere archiviata in un tiretto anonimo, ma racchiude in sé l’intera cassettiera e lo spazio circostante senza limiti conosciuti e misurabili.

Un asintoto, una pulsione verso un limite a cui tendere, che trascende il simbolo matematico verso i valori filosofici e mistici, che ho esplorato nella mia stagione esistenziale, senza risultati definitivi.

Dualismo ma anche armonia e perfezione nelle civiltà orientali a me care, nella simbologia cristiana a noi più familiare, l'ottavo giorno rappresenta la trasfigurazione e il Nuovo Testamento. Dopo i sei giorni della creazione e dopo il settimo, il sabato, l'ottavo annuncia l'eternità, la resurrezione di Cristo e quella dell'uomo.

Proiettato sull’arco dell’esistenza umana, la parola 'infinito' non è espressione di un'idea, ma espressione dello sforzo verso quell'idea”, come aveva intuito lo scrittore Edgar Allan Poe. Di nuovo il richiamo al concetto matematico dell’asintoto che si può solo avvicinare, l’ardua ricerca di equilibrio tra fisico mente e spirito.

Insomma, alla totalità dell’essere, l’alfa e l’omega dell’alfabeto greco e tutto ciò che è contenuto tra questi due estremi. Un canto libero, indifferente ad ogni retaggio della gente, come scriveva Mogol per Battisti.

Nel confronto con l’infinito filosofico, continuo a stupirmi degli affanni dell’uomo impregnato dei dogmi della società capitalista, schiavo della crescita del PIL. In realtà nemmeno i fisici hanno potuto dare piena dimostrazione dell’espansione indefinita dell’universo; quindi, è alquanto improbabile che ciò possa realizzarsi in un modello economico elaborato dall’uomo, essere finito per definizione.

Forse unica attenuante possibile di questo atteggiamento avvilente è che egli vive inconsapevolmente questa realtà, immerso nel frullatore del logorio della vita moderna, come recitava un noto carosello, di cui qualcuno preme il pulsante di accensione al risveglio del mattino e lo lascia roteare vorticosamente fino a fine giornata, quando decide di premere il pulsante di arresto, così alla mattina successiva.

Ma intanto il sabato del villaggio è trascorso, e non rimane che la noia della domenica, al pensiero dell’inizio di una nuova settimana lavorativa. Uomo connesso coi cinque continenti, ma ignaro dell’energia infinita che potrebbe scambiare coi suoi simili intorno a lui.


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Non solo questi concetti filosofici, conservo una versione più intima ed emotiva di infinito, che si esprime in momenti spesso solitari, silenziosi, privati. Lo sguardo rapito di fronte alla grandezza del mare che si perde oltre l’orizzonte visibile, la luminosità di un cielo trapuntato di miliardi di stelle, la vastità dello spazio visibile e l’immaginario di ciò che i sensi non riescono a raggiungere, la certezza che dentro di noi esiste una proiezione dell’universo cosmico, di dimensione infinitesima ma altrettanto vasta ed ancora inesplorata per la più parte.

Non è una visione contemplativa o panteistica, è un sentimento più profondo, uno stato mentale di grazia, un richiamo poderoso all’epilogo dell’infinito leopardiano “E il naufragar m’è dolce in questo mare”


Data: 7-03-2023
Autore: Giuseppe BAMBACE
CORSO DI SCRITTURA – LETTERA E
EMOZIONI


Socchiudo gli occhi, respiro profondamente e apro lo scrigno della memoria. Come un novello Salvatore, aiuto

proiezionista di Nuovo Cinema Paradiso, ritaglio in ordine sparso i fotogrammi dei ricordi più preziosi, quelli che contengono le emozioni racchiuse nell’anima.

La gioia spensierata di un bambino vivace, che rincorre a perdifiato un pallone in un cortile di asfalto, e urla quando un sinistro poderoso gonfia una rete immaginaria. Appuntamento irrinunciabile, ma solo quando i quaderni sarebbero stati riposti nella cartella coi compiti fatti.

La speranza di indulgenza al rientro a casa coi pantaloni, anzi calzoni come avrebbe ammonito il maestro, strappati dopo aver trascorso il pomeriggio afoso a ripetere all’infinito salti sui sacchi di riso.

L’impazienza di salire sulla cuccetta più alta dello scompartimento sul treno notte delle vacanze estive, per raggiungere il paese di nonna Maria, dal sorriso di una dolcezza disarmante e il rosario sempre tra le mani dietro il bancone della piccola merceria, ma dotata di un carisma naturale, che dispensava con saggezza a figli e nipoti dal suo posto a capo di una grande tavola rumorosa e magica. Sul palato il sapore della libertà, oltre naturalmente a quello della parmigiana di melanzane e della granita di caffè con panna sopra e sotto.

L’attesa della campanella di termine delle lezioni, per scalciare le foglie autunnali sul viale davanti alla scuola elementare, fino a farle vorticare, mentre la cartella era già volata in aria dai gradini oltre il portone.

Lo stupore estasiato alla vista della Piazza Rossa in una gelida notte d’inverno del primo viaggio di lavoro oltre cortina, a cui ne sarebbero seguiti molti altri, sia nei Paesi dell’ex URSS che in altri Paesi del Medio ed estremo Oriente, accompagnati dal desiderio vorace di conoscere usi e costumi, tradizioni e prospettive, cultura e vita quotidiana, al di fuori dei circuiti del turismo commerciale. Come un orsetto inesperto si avvicina ad un favo ben custodito incurante dei rischi, per scoprirne i segreti e nutrirsi del prezioso nettare.

La meraviglia di fronte ad ogni manifestazione della natura, sia del regno animale che vegetale, terapeuta degli affanni quotidiani, catarsi dalle scorie dell’anima, nelle sue peculiarità di stagione o nella improvvisa collera degli eventi più potenti dell’arroganza della razza umana.

L’abbandono alla musica che accompagnava ogni momento della giornata, su un vinile dai solchi ormai scavati o in una radio privata, spesso fornita solo di un mixer e due piatti, dalla potenza appena sufficiente a

sintonizzarla a fatica nell’etere affollato. Il biglietto del primo concerto al Palasport, purtroppo interrotto dal

lancio di molotov contro le vetrate. Ma Rock, pop, country, jazz, easy listening, disco cantautori alimentavano un caleidoscopio sfavillante di energia in un decennio di creatività musicale mai più uguagliata, che sublimava le ansie di un periodo di turbolenza politica economica e sociale.

Il piacere della lettura di un libro, dimensione raccolta ed intima del viaggio esplorativo della mente, ma anche potenza deflagrante del libero pensiero.

La passione per la fotografia, presunzione di cristallizzare in uno scatto un momento unico e irripetibile, impressionismo digitale o ritratto di quotidiana umanità, come i soggetti immortalati da Robert Doisneau, visione utopistica da lui descritta come la prova che potesse esistere un mondo dove si sarebbe sentito bene, le persone sarebbero state gentili, dove avrebbe trovato la tenerezza che sperava di ricevere.

L’estasi nella scoperta del bello, ricercato quasi spasmodicamente in ogni espressione artistica oltre che nella natura, per contrastare l’oscurità che incombe su questo tempo di mistificazioni subdole e di trivialità brutali.

Tu chiamale se vuoi... EMOZIONI. 


Data: 23-03-2023
Giuseppe BAMBACE
LABORATORIO DI SCRITTURA – LETTERA H
HABITAT


Ho trovato la definizione di habitat come l'insieme delle condizioni ambientali in cui vive una determinata specie. Ovviamente in ecologia si intendono per ogni specie animale o vegetale le condizioni ambientali favorevoli al suo sviluppo. Applicando la definizione alla specie umana, si può azzardare in senso figurato Ambiente congeniale alle proprie inclinazioni o ai propri gusti.

A me è parso evidente che questa definizione sia ampiamente superata dalle condizioni ambientali attuali, governate da antropizzazione sempre più aggressiva e invasiva degli ecosistemi, anche quelli più remoti e selvaggi, a causa delle quali le condizioni favorevoli allo sviluppo delle specie risultano sempre più limitate e confinate in ambienti sempre più ristretti.

Lungi da me osare competere con Greta Thunberg, vorrei condividere la mia visione di un mondo tra i tanti possibili che offriremo alle prossime generazioni, fantasioso e leggermente ironico.

Innanzitutto un consolidamento del cambiamento delle fasce climatiche in direzione nord, che modificherà le nostre abitudini alimentari oltre che l’organizzazione sociale e politica.

Per quanto riguarda il primo aspetto, le bancarelle dei nostri mercati rionali saranno una gioia alla vista di frutti succosi e dolcissimi, l’aria sarà satura degli aromi di spezie dai colori sgargianti e profumi intensi.

Risuoneranno tra la folla i suoni ritmati degli zoccoli e di altre calzature estive, mentre la gente dovrà farsi largo con le sporte sottobraccio ampie e rigonfie di noci di cocco mango e ananassi.

La colonna sonora sarà lo scampanellio di centinaia di risciò adibiti al trasporto di persone, merci e animali commestibili, insetti rettili e roditori di varie specie.

Non mancheranno i banchi specializzati in leccornie dolciarie, dove faranno sfoggio i prodotti di punta di una nota azienda di Alba, i datteri docg delle oasi Piemonte ricoperti di cioccolato di qualità, ricavato dalle fave di cacao rigorosamente provenienti dalle colline di Pecetto e latte di cammello di allevamenti autoctoni.

Molto ricercati saranno i prodotti esotici, quali l’olio aromatico del Mar Baltico ed il vino passito della Baviera, mentre per pochi privilegiati saranno in vendita le costosissime arance scandinave. Le persone meno abbienti si dovranno accontentare della frutta di stagione, coltivata sulle alture del Gran San Bernardo o del Massiccio del Monte Rosa.

L’acqua minerale di maggior pregio per purezza e povero contenuto di sodio sarà quella prodotta nei desalinizzatori dell’isola d’Elba, presidiati strettamente dalle autorità militari.

Le persone di classi sociali più agiate si riconosceranno perché condurranno al guinzaglio il loro cucciolo domestico maculato o dalla risata caratteristica.

Per quanto riguarda gli aspetti sociali e politici, l’area sub tropicale subirà la desertificazione definitiva e si spopolerà totalmente, a fronte di un sovraffollamento delle fasce una volta cosiddette temperate.

Ad ore definite i muezzin faranno risuonare il loro richiamo alla preghiera, mentre l’incenso dei templi buddhisti saturerà l’aria durante la festa del capodanno cinese.


2


I cittadini non dovranno preoccuparsi di bollette, dichiarazione dei redditi, tributi. Il Grande Stato saprà calcolare con precisione debiti e crediti e distribuire i doveri e compiti di ciascuno, per chiudere il loro bilancio di fine anno. I trasgressori saranno destinati a lavori più rischiosi e pesanti, di grande utilità per la collettività.

Non ci saranno festività e pensioni, in nome del progresso continuo, nonostante le resistenze della popolazione dei territori intorno a Parigi.

Ovviamente tutta questa bellezza e vivacità di colori di profumi e di suoni sarà possibile solo se nel frattempo l’umanità non avrà ridotto il pianeta in briciole con un armageddon nucleare oppure se saggiamente il sole non avrà prodotto un super flare, un brillamento che sprigiona un’energia equivalente a varie decine di milioni di bombe atomiche, che cancellerebbero ogni forma di vita.

Infatti secondo me l’uomo non ha ancora preso piena consapevolezza che il pianeta che lo ospita ha già conosciuto disastri climatici e ambientali, che ha sfruttato per creare forme di vita più complesse. Per fare un esempio paradossale, se i dinosauri non si fossero estinti l’uomo non avrebbe potuto fare la sua comparsa nel mondo.

E’ l’umanità stessa che subirà lo scotto definitivo dei cambiamenti di habitat, più rapidi della sua capacità di adattamento biologico, portandolo quindi all’estinzione. 

E io? Come recita il tema del bambino di Arzano, io speriamo che me la cavo!


Data: 06-04-2023
Giuseppe BAMBACE
LABORATORIO DI SCRITTURA – LETTERA Q
QUARTIERE


Sono arrivato a Torino nel ’67, a seguito del trasferimento di papà in una città che sperava offrisse migliori opportunità di lavoro per due figli maschi in età scolare ed una sorellina in arrivo.

Lasciavo Vercelli, mio luogo natale, nel cuore scolpita l’infanzia serena e giocosa, gli amici del cortile, i salti sui sacchi di riso ai Cappuccini, il viale alberato davanti a scuola, mentre ora negli occhi sentivo roteare lo smarrimento di fronte ad una città sconosciuta, indaffarata, dall’aria quasi solida di fumi e odori di progresso.

Ma l’inizio dell’anno scolastico incombeva ed ho dovuto accettare in fretta questa nuova dimensione. Il quartiere di Santa Rita ci ha accolto con indulgenza, avvolgendoci nel clima fiducioso da cui erano animate tante altre persone che, come la nostra famiglia, stavano espandendo e trasformando un borgo in origine composto da case operaie e cascine in un quartiere residenziale della media borghesia.

La terza elementare della scuola Mazzini rifletteva questo poderoso moto che allora pareva inarrestabile, classe di 34 bambini di estrazione sociale molto diverse, figli di operai impiegati e professionisti, una bio-diversità che arricchiva e contaminava, anche se resisteva il retaggio tradizionalista della rigida suddivisione tra classi maschili e femminili, separati anche nell’ingresso a scuola.

Il quartiere pullulava di piccoli esercizi commerciali, macellerie, calzoleria, articoli regalo, ferramenta, latte e formaggi, merceria, pastificio, calzature, che conferivano al quartiere l’atmosfera familiare di un borgo. Su tutti indimenticabile la panettiera di via Baltimora, che con la chioma bionda ed un rossetto abbagliante ha fatto palpitare i cuori della popolazione maschile, nella fascia di età compresa tra 17 e 85 anni. I prodotti che sfornava di qualità elevata erano del tutto secondari per giustificare la frequentazione da autostrada in esodo estivo della sua panetteria; quando dopo qualche anno ha ceduto l’attività per aprire un punto vendita più grande e moderno distante da Santa Rita, ho maturato il sospetto che il pane di molte famiglie del quartiere avesse il profumo del suo nuovo negozio.

Era un quartiere che assorbiva e creava senso di appartenenza, con il suo mercato rionale rumoroso e colorato di generi alimentari gustosi e prodotti di abbigliamento di buona fattura, proposti a prezzi corretti, adatti alla clientela così variegata del quartiere. Per noi ragazzi c’erano impianti sportivi, aree di gioco, anche se il più delle volte finivamo infangati nell’area di piazza d’Armi che allora pareva abbandonata, campo di allenamento per motocross sulle dune di terra. Chiavi di casa in tasca e bici appoggiate per terra, maglie marce di sudore e calzoni spesso strappati, per stare insieme ai compagni di gioco per interi pomeriggi, nessuno dubitava che non tornassimo a casa per cena sani e salvi.

Allo stesso modo al mattino, dopo averci servito la colazione, averci lavati e vestiti, prima di andare ad insegnare con la sua missione di chioccia, mamma metteva la mano di mio fratellino di 7 anni nella mia che ne avevo 10 e via a scuola, a piedi e da soli, perché gli unici pericoli erano l’attraversamento delle grandi strade e perché il borgo esercitava una silenziosa, invisibile sorveglianza sociale.

Santa Rita non poteva che avere come riferimento religioso una chiesa importante, col suo stile neo-gotico ed un campanile che domina la piazza antistante e fa risuonare il richiamo argentino delle sue campane abbracciando l’intero quartiere. La festa di fine maggio dedicata alla santa di Cascia, la santa degli impossibili ne è l’espressione più devota e riempie l’aria del profumo delle sue rose.


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Insensibili ai rintocchi delle campane, il nucleo di ritrovo (aggregazione per usare un termine oggi abusato) per noi ragazzi era l’oratorio, già allora attrezzato con campetti di calcio, sale di ricreazione con tennis tavolo e altri giochi, ma soprattutto il cortile dove poter estrarre dalle tasche le figurine panini e tirare a muretto.

Per contro il riferimento profano si consumava nei tanti bar, tuttavia preclusi a noi ragazzi, con l’eccezione del ghiacciolo da 5 lire dai colori pastello, o per rinnovare le sfide serrate al torneo domenicale di calciobalilla mentre gettonavamo le canzoni dei Deep Purple al juke-box, dopo la fuga a perdifiato al termine della messa.

Ma il rituale della domenica nel quartiere si protraeva per l’intera giornata, professato dapprima ai tavolini delle più famose pasticcerie che richiamavano consumatori anche da altri quartieri, quindi nel pomeriggio celebrato nell’unico stadio di calcio presente in città, la cui eco giungeva limpida fino a casa, e ci trovava con l’orecchio teso per intuire anticipazioni sull’esito della partita, prima dell’immancabile collegamento con Tutto il Calcio Minuto per Minuto.

Ho vissuto 30 anni in questo quartiere, prima di trasferirmi in Parella nel ’97, e pur essendo trascorso tanto tempo da allora, molto in Paesi esteri, devo ammettere che Santa Rita esercita su di me immutata una forza di attrazione magnetica.

Ho potuto sperimentare di persona quanto il senso di appartenenza sia tuttora estremamente sentito dagli abitanti, quando mi sono cimentato nella ricerca dei miei compagni delle elementari, per celebrare l’anno di pubblicazione del primo numero del nostro giornalino di classe. Hanno aderito 23 dei 34 elencati sul registro, ma il mio compito è stato meno arduo di quanto temessi, perché molti di loro non avevano mai lasciato il quartiere, un albero di alto fusto dalle radici profonde, quasi un richiamo forte al Centro di Gravità Permanente declamato da Franco Battiato.


Data: 20-04-2023
Giuseppe BAMBACE
LABORATORIO DI SCRITTURA – IL LIBRO


Mi piace entrare in libreria, respirare l’aroma accogliente di cellulosa misto a inchiostro da stampa.

Indugio tra gli scaffali per dilatare questo momento armonioso, mi soffermo di fronte al reparto di narrativa, il mio preferito, mi piace immaginare che gli scrittori sconvolgano l’ordine rigoroso assegnato loro sui ripiani suddivisi per autore, secolo, genere, e si incontrino in bella compagnia discorrendo di ciò che ha ispirato i loro racconti, le idee, le emozioni, le esperienze, spalancando in piena libertà il portale del tempo.

Lo spazio a noi conosciuto si annulla, il dialogo serrato travolge confini e barriere, non necessita di traduzione perché si esprime nel linguaggio universale della conoscenza, percorrendo l’intera storia dell’umanità dai pittogrammi Sumeri ai giorni nostri.

Quando finalmente scelgo un libro, ne apro sempre la copertina con un atteggiamento di rispetto, consapevole del potere deflagrante che esso racchiude, la potenza del pensiero libero, che sopravvive ai roghi ed alle persecuzioni di dittatori e macellai di ogni tempo, tramandando l’energia che tutto muove a chi se ne avvicina o più ancora a chi se ne nutre.

Ma lo vivo anche con un sentimento di affetto, quando lo accolgo nel palmo della mano, certo che salperà leggero con la velatura spiegata, per condurmi in luoghi sorprendenti, in un viaggio esplorativo nell’universo più intimo della mente.

Accade così di esserne trasportato all’interno, estraniato dalla realtà circostante, costruendo un rapporto quasi esclusivo coi suoi personaggi e col contesto in cui vivono la loro esperienza umana, traendone linfa preziosa, catarsi del corpo e dell’anima. Non mi soffermerò sulle numerose citazioni che esprimono ed esaltano le qualità della lettura, ma desidero concludere con un’esortazione accorata. 

In un tempo di mercificazione selvaggia e di affermazione di un autoritarismo strisciante e subdolo, che produce unicamente violenza fisica e morale, la mia utopia è vedere i ragazzi imbracciare un libro, di qualsiasi forma o genere, cartaceo od elettronico, come strumento di libertà intellettuale, per innescare finalmente la scintilla pura di un nuovo umanesimo.


Giuseppe BAMBACE
Sajanogorsk – Siberia sovietica
1993-1995


Avevo concluso positivamente due progetti in Korea del sud ed ero in attesa di ricevere notizie sulla mia destinazione successiva, quando sono stato convocato in direzione, per essere informato che mi sarei unito alla squadra, che stava completando il montaggio di un intero stabilimento per la produzione di alluminio crudo e prodotti accoppiati per imballaggi in una località della Siberia centrale.

Il commento forse più leggero alla notizia m’è stato esternato da alcuni miei amici, che fra risate irritanti mi hanno detto che si trattava certamente di un premio per il risultato del progetto precedente.

In effetti devo ammettere che in prima battuta ho avuto una reazione di costernazione, sia per il luogo, che per la mansione piuttosto delicata, perché inquinata da risvolti politici interni, a causa di divisioni e dissidi tra il reparto a cui facevo capo e un altro ente aziendale che figurava come capo commessa. In altre parole, una bella patata bollente, nonostante le temperature polari.

Il viaggio stesso per raggiungere Sajanogorsk si è rivelato un’epopea di altri tempi, raggiunta Mosca con uno scalo in Germania, ore di attesa all’aeroporto internazionale di Sheremetievo 2, architettura di rigore tedesco, quasi lugubre, luci soffuse, controllo passaporti e visti d’ingresso estenuante, all’uscita investiti da un odore acre di fumi di scarico di una miriade di taxi e autobus, evidentemente prodotto da gasolio di infima qualità.

Ci attende un’auto per il trasferimento all’aeroporto nazionale di Domodedovo, destinato ai voli diretti a est, ci immergiamo nel traffico caotico di fine inverno con una sensazione di disagio, che nemmeno la vista della Moscova fumante riesce ad alleggerire, e dopo quasi due ore di auto giungiamo all’aeroporto, che ci appare spoglio e silenzioso sotto una coltre di neve.

L’interno è altrettanto spoglio e squallido, apprendiamo che l’orario di partenza dei voli per la Siberia è del tutto aleatorio, dopo ore di attesa in una saletta fredda verso le 3 del mattino una hostess urla in russo il nome della destinazione del volo e ci avviamo verso la pista sperando di aver compreso correttamente.

Quattromila trecento km e quattro fusi orari ci separano dall’aeroporto di Abakan regione autonoma della Khakassia, dai finestrini poche fioche luci visibili a terra, una distesa infinita di foreste alternate ad aree brulle che riflettono sulla neve il biancore della luna. Alcuni di noi lamentano l’assenza di cinture di sicurezza, altri sono vicini ad una crisi isterica, per la presenza di una spessa coltre di ghiaccio sul telaio interno dell’oblò.

All’arrivo i piloti rivelano una grande abilità nel far atterrare un Tupolev ANT-35 su pista totalmente ghiacciata, probabilmente maturata in addestramento militare.

Ancora un’ora e mezzo di pulmino ed arriviamo ai nostri alloggi, all’interno di casermoni austeri di architettura tipicamente sovietica, dotati di portineria sorvegliata per ogni scala, all’interno della quale era presente l’unico telefono di comunicazione con l’esterno ad uso collettivo.

La vista dello stabilimento ha destato subito impressione, un formicaio di dimensioni ragguardevoli dove brulicava un numero considerevole di persone, non sempre in ordine logico. In realtà l’intero paese di

Sajanogorsk è stato fondato, per servire una delle più grandi centrali idroelettriche costruita a metà degli anni ’70 sulle sponde del fiume Enisej, uno dei 3 grandi fiumi siberiani.

Alimentata da un bacino grande 621 Km2 ha una potenza di oltre 6 milioni di Kw. Proprio per merito di questa grande disponibilità di energia, era il sito ideale per la realizzazione dello stabilimento di produzione di alluminio, una tecnologia fortemente energivora.


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Dai pani di alluminio al foglio sottile e imballaggi compositi per prodotti alimentari e di uso domestico. Questa potrebbe essere la sintesi di un sito composto da una fonderia, tre linee di colata, un reparto di laminazione comprendente 5 laminatoi, forni di ricottura, sdoppiatrici e linee di taglio longitudinale e trasversale, un reparto di converting dove l’alluminio veniva accoppiato con carta e politene, verniciato su linee di stampa rotocalco e flessografica. Reparti di servizio alla stampa, laboratori, centrale termica, impianti di tutti i mezzi energetici necessari al processo.

In pratica uno degli esempi in cui il paese nasce e si sviluppa intorno alla sede prescelta dal governo centrale per la costruzione di un insediamento industriale che prende vita con l’impiego di migliaia di persone attirate dalla promessa di salari molto superiori a quelli che era possibile ottenere nella Russia europea.

In realtà nel corso del progetto ho assistito a scioperi bianchi per rivendicazioni salariali e maggiori tutele di sicurezza sul lavoro. Lo sciopero come lo intendiamo noi non era praticabile in un contesto siberiano, in cui il maggiore azionista dell’azienda era uno dei più potenti oligarchi usciti dal disfacimento dell’URSS e del socialismo reale. In realtà la protesta si svolgeva con una dinamica singolare: come mi ha confessato un capo squadra “loro fingono di pagarci, noi fingiamo di lavorare”.

La posa della prima colonna del capannone principale era avvenuta 3 anni prima e ce ne sarebbero voluti altri 2 per la messa in funzione di tutte le macchine ed impianti, per raggiungere le prestazioni previste a contratto.

Un anno e mezzo trascorso in questa regione remota mi ha dato l’occasione di lavorare in un ambiente internazionale e multiculturale, per la presenza di tecnici di diversi Paesi, dai quali ho imparato che un qualsiasi tema possa essere visto da diverse prospettive come in un prisma di Newton e di conseguenza possa essere sviluppato con molteplici soluzioni.

Ma quello che la Siberia mi ha lasciato dentro è la sensazione della potenza prepotente della natura, di fronte alla quale persino l’uomo tecnologico appare attonito, indifeso.

La vastità degli spazi, l’estensione delle foreste di betulle e della radura, che i russi chiamano taiga, le sorprese che la natura riserva in ogni stagione.

L’inverno è certamente il vento teso che giunge dall’estremo nord non trovando barriere naturali a mitigarlo e che trafigge la faccia come spilli appuntiti. Per fortuna quell’inverno del 1994 la temperatura non è mai scesa al di sotto di -38 °C, comunque sufficiente a cristallizzare rami, alberi, marciapiedi, vetri delle auto e qualsiasi forma di vita in una dimensione fiabesca di immobilità e di silenzi assordanti.

La primavera giunge quasi inaspettata, trasformando il manto di neve in rivoli d’acqua che alimentano il terreno da cui spuntano fiori minuscoli dai colori accesi, l’aria profuma di nuova vita, gli umani calzano gli stivali per poter accedere alle strade ricoperte di fango e pozzanghere, ma la poesia supera il disagio.

L’estate è brevissima ma accecante, come se tutti gli esseri viventi fossero consapevoli di dover completare il loro ciclo vitale in poche settimane prima del ritorno del freddo. La temperatura sorprendentemente elevata fino a +30 °C favorisce un’esplosione di colori e di suoni, mentre le zecche infestano i prati di erba alta e gli alberi da cui tendono agguati ai malcapitati in cerca di frescura. Tra gli esseri umani vengono rispolverati vestiti sgargianti, si moltiplicano grigliate di shashlik (spiedini di bocconcini di maiale marinati in acqua salata, cipolle alloro), rinfrescati con arbus (anguria) e ovviamente innaffiati con abbondante vodka. In paese i rifiuti fermentano pigramente al sole, offrendo nutrimento a insetti famelici.

Infine, l’autunno annuncia il suo arrivo con un mantello di sfumature di giallo, arancio e rosso che ricopre le foreste a perdita d’occhio, gli animali preparano i loro giacigli e gli umani si dedicano alle conserve in salamoia da gustare nelle serate d’inverno, quando gli unici ortaggi freschi, anzi gelati, sono rape e tuberi in generale.

I 4300 km che ci separano da Mosca sembrano anni luce in questa dimensione, che vive col respiro della fabbrica, ed i cui unici svaghi si consumano al chiuso di ristoranti con annesso il palco danzante dove la musica insiste a livelli assordanti, quasi ad alienare lo spirito dagli affanni quotidiani.


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Le comunicazioni sono primitive, per ottenere una conversazione telefonica occorre prenotare il telefono pubblico in portineria, specificando giorno e durata non superiore a 10 minuti. Mi è rimasta impressa la sorpresa di un collega USA, che aveva prenotato la chiamata col nostro ufficio tecnico di Torino e che dopo un minuto si è visto interrompere la conversazione da un operatore che gli intimava di parlare italiano.

La TV trasmette programmi musicali e commedie teatrali, un numero ridotto di partite del campionato del mondo di USA 1994 in differita il giorno seguente.

I generi alimentari per il nostro personale arrivano in container dall’Italia, le poche auto a disposizione vengono assegnate a turno, benzina e prodotti di pregio come carne si trovano al mercato nero. Ma gli spostamenti al di fuori del comune sono difficili e devono essere autorizzati da permessi rilasciati dalla polizia.

A noi rimanevano i privilegi di organizzare alcune escursioni nelle località di maggiore interesse della regione, tra i quali vorrei menzionare uno naturalistico ed uno storico.

Ricordo vividamente i monti Sajani, catena rocciosa simile alle Alpi che ci separava dalla Mongolia, che purtroppo abbiamo potuto visitare solo parzialmente perché la regione confinante del Tuva era territorio in cui erano avvenuti attentati contro le autorità russe.

Emozionante anche la visita al villaggio di Shushenskaya, dove era stato esiliato Vladimir Ilic Lenin dal regime dello zar, ancora intatte le abitazioni, la sua casa il suo studio arredato coi mobili originali, compreso lo scrittoio dove ha elaborato il suo pensiero rivoluzionario.

Per gli abitanti già nelle ultime fasi del progetto le dure condizioni di vita quotidiana si erano in parte ammorbidite, al mercato si potevano trovare prodotti provenienti dalle repubbliche meridionali, dal clima generoso e terre grasse e rigogliose.

Maggiormente sensibili alle sirene della vita agiata, le giovani generazioni raccolgono l’eco di un mondo lontano, che credono luccicante e pieno di opportunità e desiderano emigrare altrove. Abbiamo registrato sette matrimoni celebrati tra i nostri tecnici e insegnanti di inglese della locale scuola secondaria, che è stata costretta a rimpiazzare frettolosamente le fuggiasche.

Non so come la situazione si sia evoluta dopo il mio rientro a fine giugno 1995, Immagino che l’area abbia goduto di una modernizzazione, anche se in misura più contenuta rispetto agli sfarzi e gli eccessi delle grandi città della Russia europea. Ma nutro il sospetto che le aspirazioni maggiori siano state rivolte ai beni di consumo, in una ricerca spasmodica che assomiglia molto al nostro consumismo compulsivo e che la ricchezza generata dalla enorme fabbrica sia stata destinata esclusivamente al potente oligarca Oleg Deripaska ed ai suoi accoliti, aumentando a dismisura la forbice con le classi sociali più modeste.

Oggi l’unica definizione che mi sorge spontanea per descrivere la Russia è quella di un’occasione mancata, sia da parte russa dopo le aperture di Gorbaciov con la sua politica di glasnost e perestrojka di qualche anno prima, sia da parte europea, per non aver saputo partecipare e condividere gli elementi che ci uniscono al loro popolo, anziché fomentare le differenze, remissivi agli interessi del nostro maggiore alleato oltre oceano.



Data: 02-05-2023
Giuseppe BAMBACE
LABORATORIO DI SCRITTURA – LETTERA A
ALFABETO


C’era una volta Il Paese dell’alfabeto, dove regnava con saggezza e rigore la Regina Madre Grammatica.

Tutte le lettere lavoravano alacremente, unendosi e spaziandosi in senso logico, mentre virgole e punti regolavano il traffico vorticoso delle vie principali del regno, per garantire che le parole fluissero senza balbettii.

Ma un giorno di autunno malinconico e piovoso accadde un fatto inaspettato, che avrebbe provocato un gran trambusto, mettendo in grave pericolo le regole della comunicazione e l’autorità stessa della regina madre.

Da tempo alcune lettere si ritenevano non abbastanza considerate ed accusavano le altre di tenerle in disparte, fu l’inizio della competizione per la supremazia.

Le Z si sentivano stanche di essere considerate le ultime, le Q provavano un senso di solitudine ed erano risentite con le U con le quali dovevano cercare una forzata alleanza, per dar voce alle loro idee, mentre queste preferivano accompagnarsi alle N le O e le A per sentirsi uniche.

Le A rivendicavano il loro primato nell’ordine delle lettere, ma soprattutto perché iniziali di parole fondamentali della vita quali Amore, Amicizia, Affetto, Amatriciana, Apartita.

Ribattevano le E in modo un po’ snob la loro pertinenza esclusiva del momento Epifanico.

Per non parlare delle I e L che quando si riunivano a G O A e E per formare gli articoli, assumevano un atteggiamento così determinativo, da risultare persino fastidioso.

Persino le H solitamente miti e silenziose avevano messo su un broncio che non lasciava dubbi sul loro HUMUS bellicoso.

Era ormai una situazione insostenibile, che la regina madre sperò si risolvere indicendo le elezioni per proclamare la lettera primo ministro.

Purtroppo le sue speranze furono disattese, dopo 21 scrutini tutte le lettere uscirono dall’urna con un voto ciascuno, segno inequivocabile che ognuna continuava a votare per sé stessa.

Occorreva una soluzione forte, ma ugualmente misurata, che spiazzasse i contendenti e superasse l’impasse.

I consiglieri di corte Fono Morfo e Sinta suggerirono un referendum, per proporre un’ortografia nuova, a condizione che mantenesse valide le regole di costruzione delle frasi.

Fu un autentico disastro, scoppiarono sommosse e manifestazioni in tutto il regno. Nelle zone residenziali le D dimostravano innalzando cartelli inquietanti che richiamavano la Dittatura, mentre nelle periferie le R si erano organizzate in cellule di guerriglia che vestivano bandane rosse e inneggiavano alla Rivoluzione.

Non mancarono i goliardi seguaci delle fazioni B, che pubblicarono messaggi primitivi su Tik Tok corredati da fotografie di ex ministre in abiti succinti.

I giovanissimi tentarono un’alleanza trasversale, utilizzando canali di comunicazione social messi a disposizione dalle W con whatsapp, le T con Twitter, le F con Facebook, I con Istagram per citarne alcune. Ma il tentativo di istituire una comunicazione esclusiva fallì miseramente, perché il messaggio si rivelò talmente criptico che alla fine non venne capito nemmeno da loro stessi.


2


Nelle strade regnava il caos, punti e virgole che regolavano il traffico furono soppiantati da punti interrogativi ed esclamativi, i primi che seminarono dubbi e incertezza sulla direzione corretta, i secondi che decretavano imperativi contraddittori sui lasciapassare, provocando ulteriore confusione.

Finalmente intervenne la regina madre, insieme con Tempo lo sciamano di corte, del quale tutti riconoscevano l’autorità il carisma e la lungimiranza, insomma un vero galantuomo.

Con un editto ufficiale Grammatica proclamò che tutte le lettere godevano di pari dignità ed ognuna esercitava un ruolo essenziale, anche se a volte apparentemente oscuro.

Il Paese aveva un tremendo bisogno che le lettere si prodigassero ogni giorno, per comporre parole di Pace, Tolleranza Rispetto e Dignità.

In breve tempo Il Paese di Alfabeto ritrovò l’armonia dei tempi felici, ma la favola può diventare realtà


Data: 18-05-2023
Giuseppe BAMBACE
LABORATORIO DI SCRITTURA – LETTERA Z
ZERO


Mi presento mi chiamo ZERO e sono un numero speciale.

Nelle lingue antiche significo nulla, vuoto, in effetti sono l’unico numero naturale che non è successore di unaltro numero. È una magnifica condizione che condivido con mio cugino infinito.

Molti degli altri numeri ritengono che non valga molto, ma mi faccio beffe delle loro insinuazioni e maldicenze.

Rimangono lì, in posizione prefissata lungo una linea retta, allineati secondo una rigorosa successione, mentreio ... oh io non ho gli stessi legami, per questo motivo mi denigrano, forse sono invidiosi della mia libertà.

In effetti basta spostarmi sui due opposti di una singola virgola per rappresentare una dimensione infinitesima, visione simbolica di un microcosmo, che richiama uno stato dell’anima più che una grandezza fisica.

Al contrario posso dispormi alle spalle di una qualsiasi cifra che mi sottovaluta, per moltiplicarne l’ampiezza fino a dimensioni siderali, ancora una volta rappresentazione di un universo che dalla loro casella ordinata i miei colleghi numeri non riescono nemmeno a concepire.

Dal micro al macro cosmo, uno spazio incantato ma carico di responsabilità.

Infatti chiunque sia gravato di affanni, difficoltà, di sfide nella vita, ma voglia impegnare le energie residue per mettersi ancora in gioco ricomincia da me, perché sono l’inizio, il punto di partenza. Puoi contare dallo zero in su, in verso opposto non hai un punto di riferimento.

Massimo Troisi era solo l’eccezione della regola, lui che vantava di aver fatto 3 cose buone nella sua esistenza ricominciava da 3, ma viveva una dimensione poetica che gli consentiva di volare al di sopra delle convenzioni.

Ma dispongo di tante altre qualità; non a caso sono stato eletto rappresentante del cambiamento di stato, il passaggio dallo stato liquido a quello solido e viceversa di uno degli elementi fondamentali della vita.

Sono il piano di partenza per le fondamenta di una nuova costruzione, di un progetto, di una speranza. Sono l’asintoto della salvezza del pianeta ad impatto zero. Ahimè sono anche elemento principe del codice binario dell’intelligenza artificiale, il linguaggio dei computers.

Mi chiedo se i creativi del marketing abbiano mai valutato questi aspetti, quando mi usano per simboleggiare il concetto di assenza, così senza zucchero, senza caffeina e così via.

Nonostante disponga di questa potente energia, rimango umile, sordo agli schiamazzi di chi spende tempo per farsi notare, perché consapevole del mio grande privilegio di viaggiatore universale, né segno positivo né negativo ma aperto tra le due semirette algebriche, come uno spazio di non essere che racchiude il tutto.

D’altra parte sono orgoglioso che gli allenatori vecchio stampo definissero ZERO a ZERO il risultato perfetto.

Anche io mi accontenterei di un risultato di parità senza goal nella partita con la mia vita.

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